Jacopo Mandich, lo scultore che estrae l’anima dalla materia
Emil Cioran era del parere che la vita altro non è se non la prosopopea della materia e la materia, inevitabilmente impregnata di dolore, è al centro dell’opera di Jacopo Mandich. Legno, ferro, pietra, stoffa, prendono forma in sculture in grado di evocare tempi lontani, quando ancora l’essere umano non aveva messo piede sulla terra. Volendo ostentare sicurezza, potremmo affermare che i lavori di Jacopo Mandich sono un’estensione della propria persona, fatta sì di materia ma dotata anche di una spiritualità primordiale. L’incontro con l’artista è avvenuto negli spazi della Galleria d’Arte Faber in occasione di Forze Invisibili, installazione che ha subito una metamorfosi continua, per poi trovare la sua forma completa in Antinomie. Occhi scuri e profondi come il fondale marino inesplorato; una voce dolce, ma contraddistinta da un’intensità tale d poterla paragonare a quella di Carmelo Bene durante la lettura – drammaticamente poetica – dei Canti Orfici di Dino Campana: intervistare Jacopo Mandich, in sintesi, è stato come superare e trascendere il tempo. Un viaggio del tutto singolare.
L’arte non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo, scriveva il grande poeta russo Vladimir Majakovskij. Invece, per te, cosa rappresenta l’arte?
Per me l’arte non è soltanto un’idea o semplicemente un’immagine, ma è qualcosa che sconfina da questo territorio, oltrepassando il nostro perimetro fisico. L’ho sempre immaginata come un’entità che vive nella parte più misteriosa del nostro io. Le persone, intese come massa, trascorrono la quotidianità all’insegna della necessità, ma in modo insensato: non vi è alcun corrispettivo con tutto ciò che ci circonda e il nostro spirito, con la nostra anima nonché vera essenza. Siamo dispersi da millenni e navighiamo costantemente per assicurarci il pranzo, avere la cena e magari una casa. Tutto ciò per dire che per me, l’arte, abita al di là di tutto questo: è una dimensione meditativa, un’azione sciamanica. All’inizio della mia carriera, ero molto attratto dalla parte onirica, la interpretavo come una finestra affacciata sull’inconscio, un varco atemporale. Adesso c’è di più: è una realtà completamente a parte, che prende le distanze e supera la concezione del sé.
L’impulso creativo è uno stadio essenziale e primario nell’approccio a qualsiasi forma di lavoro che richiede ingegnosità. Nel tuo caso, Jacopo, come si manifesta questa pulsione?
È una domanda difficile poiché esistono molte sfumature ma non posso negare che si manifesta principalmente come un’indagine emotiva. L’emozione, dal mio punto di vista, è la chiave della percezione del reale che apre le porte a sentimenti diversi da quelli che possono essere la sofferenza, l’amore per una donna, l’affetto verso la famiglia o gli animali. Intendiamoci, non è che siano sentimenti meno profondi, ma il nostro modo di viverli è sempre più lezioso e gratuito. Ritornando all’impulso creativo, la mia esigenza nasce dalla percezione del dato reale, poiché è l’argomento più enigmatico e controverso. Gli effetti di questa dimensione sensoriale si vivono sì nella quotidianità, però la nostra essenza, paradossalmente, è forgiata più da qualcosa che non è tangibile, di non afferrabile concretamente, piuttosto che dai vari traumi che si possono subire nel corso della vita. La parte più affascinante rimane questa forza – invisibile e impalpabile – che giace dentro di noi e ci guida verso l’indefinito. La realtà spesso ostacola e la voce dell’anima può ingannare: occorre imparare ad ascoltare poiché nessuno può garantirti che, quel bisbiglio, non sia spazzatura interiore. Io ho un bisogno costante di sbirciare dall’altro lato, di capire cosa si nasconde dietro questi meccanismi che regolano il meccanismo della nostra mente. La mia pulsione creativa deriva da questi presupposti, o meglio, da esigenze e motivazioni del tutto personali.
Jacopo, hai dichiarato che la materia è per te “una magia che a volte si compie quando l’oggetto acquista una sua identità e diventa un nuovo individuo”. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a scegliere i supporti da cui vengono estratte e liberate, successivamente, le tue sculture?
Il mondo ci mette a disposizione un quantitativo innumerevole di materiali fantastici con cui abbiamo sviluppato un’affinità genetica, proprio perché appartengono a migliaia di anni fa. Sono così arcaici, tali da evocare dentro ognuno di noi una traccia, un segno del passato. Non ci si avvicina al materiale perché si è coscienti di tutto questo: ci si avvicina perché si nutre un desiderio, un’attrazione e stabilire le motivazioni per cui ciò accade, è pressoché impossibile. Si è rapiti soltanto dal fascino e dalla curiosità. Lavorando con il legno, il ferro e la pietra, sento che mi guidano, consigliano, stimolano, e soprattutto mi spiegano di quale sostanza è fatta la vita, ad esempio quella di un albero. Quando scolpisco la pietra – la pelle di un corpo celeste – avverto il tempo che passa sotto la mie mani: un taglio e si giunge in attimo a quattro mila anni prima della nostra nascita. È un’esperienza ed un’emozione unica”.
Nel 2015, Jacopo Mandich, è stato il primo scultore italiano a partecipare alla Terza Biennale degli Urali di Arte Contemporanea. Catapultato per sei settimane in “un’ambientazione estremamente seducente”, come ha affermato lo stesso scultore, ha realizzato due opere: Pelle di corpo celeste, un’installazione partecipativa permanente nella città mineraria di Satka e Fino all’ultima pietra, un’installazione partecipativa temporanea a Ekaterinburg. In Salone, Charles Baudelaire, scriveva che la scultura presenta varie difficoltà che derivano per una logica necessaria dai suoi mezzi di esecuzione: brutale e positiva al pari della natura, essa è insieme vaga e intangibile, in quanto mostra troppe facce in una volta. In questa descrizione è possibile scorgere l’arte di Jacopo Mandich: quando in una sua opera inserisce un missile, non è mai semplicemente un grande proiettile, ma molto di più. “A Satka esiste una delle più grandi cave di magnesite al mondo. La magnesite viene estratta e lavorata secondo lunghi procedimenti. Una volta trasformata in mattone, approda alle industrie pesanti sostanzialmente per farne delle armi. Cento anni fa a Satka c’era una montagna, adesso vi è una montagna al contrario, vale a dire un cono. La cosa che mi interessava era fare in modo che le persone si soffermassero a riflettere su cosa si cela dietro il missile: è giusto distruggere una montagna per uccidere uomini dall’altra parte del mondo?”.
Dopo gli studi accademici, Jacopo Mandich si è chiuso nella gabbia metallica della sua dimensione artistica per capire il percorso da intraprendere. Scavando dentro di sé, sviluppa una propria dialettica e visione creativa. Jacopo accompagna delicatamente gli spettatori nel lungo viaggio attraverso la materia: la dinamicità – fisica e del pensiero – è uno di quei caratteri che rendono più fruibile una sua opera al pubblico. Quando taglia un pezzo di legno a metà, avverte tutta l’energia proveniente dalla natura e inoltre “il potere evocativo dello strappo è equivalente alle strappature a cui la vita ci sottopone con violenza. Diventa allora necessario scavare e approdare a quel vuoto, il vuoto che abita dentro ognuno di noi”. Parlando della materia, Jacopo Mandich, stabilisce in mondo naturale un’empatia immediata con il suo interlocutore: si è in grado di sentire, attraverso il suo racconto, l’odore del legno, la mano accarezzare la fredda pietra e la potenza della memoria passata. Una particolare esperienza sensoriale che rapisce e turba l’animo, allo stesso tempo.
© Foto di Manuela Giusto
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