Auguri a Monica Vitti: dai mille volti del passato al silenzio del presente

“Che bella nuca!”. Questo il primo complimento (ovviamente, e deliziosamente, un po’ sui generis) che Michelangelo Antonioni rivolse a quella che sarebbe diventata la sua donna e la sua Musa. Da quell’incontro di spalle in sala di doppiaggio alla celebre battuta del “Mi fanno male i capelli” nel capolavoro “Deserto Rosso” (1964), che rese il regista e la sua protagonista famosi nel mondo, il passo, anche fuori di metafora, è stato breve. Fu solo l’inizio per Monica Vitti.

Mentre i ricordi, oggi, le remano contro, a causa dell’avanzare insolente di quel mostro che è l’Alzheimer, l’unico “colonnello in gonnella” della commedia all’italiana compie 85 anni lontano dai riflettori, irraggiungibile nel silenzio della malattia.

monica vittiBrutto scherzo del destino, per un attore, perdere a poco a poco la memoria. Tante, invece, le scene iconiche dei film con cui ogni giorno continuano a ricordarla gli italiani. Dall’adorabile, determinata aspirante attrice d’avanspettacolo Dea Dani in “Polvere di stelle” (la regia, nel 1973, era di Alberto Sordi, a cui va il merito di aver scoperto la verve dell’attrice romana) alla tormentata Claudia ne “L’avventura” (primo capitolo della “trilogia dell’incomunicabilità” di Antonioni con La notte e L’eclisse), la Vitti ha attraversato generi cinematografici e 50 anni di storia italiana in 50 pellicole, drammi e commedie, con il pathos della sua voce roca e l’ironia della sua incerta sensualità.

“Le attrici, diciamo bruttine, che oggi hanno successo in Italia lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta”, diceva lei, portatrice sana di quella modestia un po’ falsa che solo le grandi possono permettersi di ostentare senza apparire ipocrite, soprattutto se mescolata alla sua inconfondibile cifra: l’umorismo. Nell’epoca d’oro dello charme, quando ancora si parlava di Dolce Vita e non di plasticato”glamour”, la bellezza era l’ancheggiare sinuoso delle grandi Dive. Lei non aveva il décolleté di Sofia Loren, né la dolcezza della Cardinale o gli occhi da gatta della Lollobrigida. Secondo i maestri dell’Accademia d’Arte Drammatica non aveva neanche la voce adatta, per fare l’attrice. Troppo roca. E quel naso da Minerva, poi, troppo pronunciato, dicevano. “E io che ci faccio con tutto questo fuoco che ho dentro?” gli rispose.

Qualcosa, e molto più di qualcosa, ci fece. Cinque David di Donatello come migliore attrice protagonista, tre Nastri d’Argento, dodici Globi d’oro, un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián, fino ai tributi della Legion d’Onore Francese e dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Trent’anni dopo quel provino, Maria Luisa Ceciarelli – questo il suo vero nome – aveva “le gambe più belle della tv italiana” e soprattutto quella capacità di fare dell’autoironia il suo punto di forza, un’arma vincente in barba alle donne di spettacolo ingabbiate nei loro personaggi dorati e in omaggio alle tante signore a casa, sedute di fronte alla tv. Fu volto di una galleria di donne forti e fragili, nevrotiche ma armoniose, volubili ma perspicaci, mogli borghesi, popolane fedifraghe, che schiarivano le idee a chi, davanti allo schermo, nelle città, nei paesi, sentiva parlare di femminismo, divorzio, emancipazione.

monica vittiPartendo dalla sua piccola rivoluzione personale, e anche familiare – “Mia mamma si vergognava a dire di avere una figlia attrice. Lo diceva a bassavoce…”, raccontò lei, che mai ebbe figli, al giornalista Enzo Biagi – ha insegnato alle italiane a prendersi in giro, a esorcizzare col sorriso il cliché del disonore tutto meridionale delle giovani siciliane in “Una ragazza con la pistola” (regia di Mario Monicelli, 1968), a ribellarsi alle logiche domestiche del capofamiglia e della casalinga nel comizio femminista de “Gli ordini sono ordini” (Franco Girladi, 1972), a legittimare l’amore, anche quando extraconiugale, in “Dramma della gelosia- Tutti i particolari in cronaca” (Ettore Scola, 1970).

Un’icona, uno specchio di fronte a cui guardarsi, esplorarsi, interrogarsi, per molti. Come da missione del cinema, non solo d’autore ma anche, e soprattutto, quello leggero, di commedia, accessibile ai più. Qualcosa di cui oggi si sente la mancanza. Arrivò anche alla regia, nel 1990, col suo “Scandalo segreto”, esordio che paradossalmente segnò l’addio definitivo alle scene, l’inizio di un riserbo assoluto, lo spegnersi dei riflettori, il diritto (sacrosanto) all’oblio del presente. “Le donne mi hanno sempre sorpresa: sono forti, hanno la speranza nel cuore e nell’avvenire” sono le ultime parole che consegnò alla stampa, e al suo pubblico, nel 2011. Quanto ci manchi, Monica Vitti. Buon compleanno, ovunque tu sia.

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Twitter: @EvaElisabetta

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