Bato e Arianna Matta: l’arte minimale incontra lo spazio intimo
È un atto di fiducia verso il mondo dell’arte, il gesto che ha spinto Michele von Büren a creare RvB Arts: uno spazio che non è un semplice luogo di esposizione, bensì un percorso volto a scoprire nuovi e giovani artisti, come Bato e Arianna Motta, in un contesto di continua sperimentazione. Ed è proprio durante il “Cocktail d’arte” del 27 ottobre, tenutosi in occasione del Roma Art Week, che abbiamo avuto modo di incontrarli e di approfondire la loro vocazione professionale.
“Con un procedere dinamico e strutturato, Bato crea un personale linguaggio di un’essenzialità visiva tale da integrare integrare in pochi segni forma e contenuto”, è con queste parole che il critico Viviana Quattrini introduce l’artista dal tratto minimale. Capire l’arte di Bato è come andare al di là dei suoi occhiali da vista, togliere la barriera rappresentata dall’oggetto, per favorire l’incrocio con il suo sguardo: spogliare il soggetto e ridurlo alla sua forma essenziale. Dopo il Liceo Artistico, Bato, per timore che la sua passione potesse trasformarsi in un incubo, ha deciso di non intraprendere la carriera accademica. Ma non è l’unico motivo che lo ha portato a questa scelta: semplicemente non aveva bisogno di acquisire una tecnica per concretizzare le sue idee e soprattutto, usando le sue parole, “la ricerca della propria poetica, può avvenire in un contesto diverso da quello puramente artistico”. Non a caso, Bato, si laurea in Lettere e, durante il periodo universitario, viene folgorato dal tratto e dal segno del caricaturista francese Honoré Daumier. Ma questo non è un punto di arrivo, bensì un punto di inizio.
Bato, la storia che ti ha portato a raggiungere la cifra stilistica attuale, è frutto di una storia interessante, dal sapore bohémien di una Parigi romana degli anni ’20.
Sì. La mia arte nasce con il jazz, in modo casuale. Stavo attraversando una fase della mia vita in cui avevo deciso di smettere di dipingere e frequentavo, ogni sera, un pub a San Lorenzo che ora non esiste più. In questo locale, giunta una certa ora, confluivano jazzisti provenienti da molti posti e, chiuse le serrande, stavamo lì fino alle cinque del mattino. Nacque un’imprevista collaborazione fra me e il titolare: in sintesi facevo i ritratti dei musicisti in cambio di birre e panini. Inizialmente usavo soltanto la china, poi in un’occasione, il gestore mi diede una tazzina di caffè per dare un po’ di colore ai disegni. Ai jazzisti piacque molto questa iniziativa anche perché, si sa, tutti gli artisti sono un po’ narcisisti. All’epoca per me erano dei semplici scarabocchi, ma è in quel momento che la mia passione è riemersa cambiando il corso degli eventi.
Osservando i quadri esposti al RvB Arts è impossibile non notare che i soggetti da te prediletti sono presi dal mondo animale. Qual è il motivo di questa scelta?
Non avevo mai pensato a questa cosa. Il soggetto da rappresentare è sempre una scusa, può essere frutto di una speculazione filosofica, dell’esperienza o semplicemente di un’emozione ma, quello che conta per me è la composizione: eliminare il superfluo, ridurre il soggetto al necessario e niente più. I miei disegni, per quanto possano sembrare istintivi, in realtà sono il risultato di un lungo e profondo studio preparatorio che talvolta dura anche mesi: ad esempio, il drago che è esposto qui in galleria, prima aveva le zampe e la testa, ora no. La figura che rimane, è un misto di linee che rappresentano sì il serpente, ma anche le curve femminili, con tutte le implicazioni interpretative che possono scaturire. A me piace lasciare una traccia dentro cui, le persone cariche di immaginazione, possano avviare un discorso personale. Ovviamente non è necessario che venga capito il messaggio, l’importante è che la composizione sia equilibrata. I dipinti per me sono come le note: anche se non sai leggere la musica, il fine è la composizione che dà origine a una melodia, piacevole o meno che sia, è comunque frutto di uno studiato e armonico lavoro. Quando ero piccolo, passavo ore davanti ai quadri di De Chirico, non comprendevo assolutamente nulla, eppure provavo a capire cosa di nascondesse dietro quelle immagini: uno sguardo che mi è rimasto anche oggi. La curiosità muove ogni mio passo.
Occhi grandi in grado di comunicare una grande forza interiore, armata di un passo leggero e di un sorriso contagioso, Arianna Matta non è semplicemente un’artista, ma è essa stessa parte e materia integrante delle sue opere. Nel difficile tentativo di essere sintetici, potremmo dire che Arianna Matta è la pittrice dell’anima e i suoi disegni sono lo spazio dell’intimo. È un tacito accordo quello che la lega al suo pubblico: è possibile guardare in superficie un suo quadro, ma se si ha l’intenzione di andare al di là dei colori, occorre procedere con gentilezza, delicatezza e rispetto. Come Bato, anche Arianna ha un percorso artistico singolare.
Arianna, il tuo primo disegno risale all’età di due anni, ma nonostante la tua vocazione artistica, dopo aver conseguito la maturità classica, lavori per dieci anni come programmatore informatico e ti laurei in “Storia del teatro” al DAMS. C’è stato un avvenimento particolare che ti ha ricongiunta al tuo primo amore?
Sì, un grave lutto in famiglia. Nel 2005 ho perso mio padre in seguito a una grave malattia, un tumore al cervello. La spinta arrivò proprio da lui: “Arianna ha una grande creatività, se non la esprime starà male”. Così, riprendendo questa mia passione antica, cominciai a dipingere quasi a scopo terapeutico, per provare a guarite le ferite generate dal dolore, attingendo appunto alla mia risorsa più importante: l’espressione attraverso il disegno. I miei primi lavori sono frutto della situazione che vivevo, ogni giorno, dalle sette del mattino sino alle nove di sera quando tornavo a casa. Lavorando come informatico, mi mandavano spesso in periferia ed è lì, che il tema urbano si fece spazio nella mia testa, poiché era la mia realtà quotidiana: archeologia industriale, fabbriche, cominciarono a concretizzarsi sulle mie tele. Quell’atmosfera così isolata, mi suggestionava, anche nel senso romantico del termine: in quei luoghi, le piogge e i tramonti, erano diversi. Rispecchiavano il mio stato d’animo grigio, grigio come quelle strutture, grigio come i miei quadri; un colore così affine a me in quel momento, tale da esserne affascinata. A causa del dolore generato dall’assenza di mio padre, ho cominciato a dipingere subito spazi vuoti, ma sempre con sorgenti luminose che ritraevano oggetti, tali sì da rappresentarmi, ma sempre in modo approssimativo: una maschera che indossavo per aiutare me stessa ma anche per depistare, nel tentativo di proteggerli, (i soggetti dei miei quadri erano di proposito non immediati nella trasmissione del dolore) i miei familiari. La pittura, sostanzialmente, mi ha aiutato ad esorcizzare la tensione negativa che si era, inevitabilmente, impossessata di me.
Poi ad un certo punto nelle tue tele arriva il colore, in modo esplosivo. Abbiamo imparato a capire che trai ispirazione dal mondo che ti circonda e il conseguente moto d’animo che ne scaturisce. Cos’è cambiato nella tua vita?
È vero, io attingo sempre da tutto ciò che avviene nella mia vita, nel bene e nel male. Sono passata dal monocromatico grigio alle sfumature di colori accesi, in seguito alla nascita di mio figlio: la percezione delle cose è cambiata, si è avviata la riscoperta del periodo felice che è il momento dell’infanzia. In questi quadri c’è anche la dimensione del ricordo, fra passato e presente, in un anello che, nel mio viaggio interiore, lega mio padre e mio figlio. Questi esposti al RvB Art, sono i primi disegni colorati che ho dipinto in assoluto: sempre spazi interni, ma con una differenza. Questa volta sono caldi, ricchi di calore sentimentale.
Le opere di Arianna Motta disturbano, piacevolmente, la percezione visiva in uno slittamento di immagini che ripropongono la quotidianità, nel tentativo di superare sé stessi e oltrepassare il limite della superficie della tela.
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