Nobel per la Letteratura 2016, la poetica di Dylan
Esistono dei giorni particolari, dotati di una carica emotiva così intensa da fissarsi in modo indelebile nel calendario della nostra memoria: il 13 ottobre 2016 è candidato ad essere uno di essi. Mentre il carro di Thanatos trascinava via il “Giullare”, il Premio Nobel per la Letteratura 2016 portava sul podio della vittoria il “Menestrello”. Una singolare coincidenza, o semplicemente la profezia di Dario Fo che si è avverata quindici anni dopo: “Sarei proprio contento se fosse Bob Dylan a vincere il premio Nobel”. E così è stato: nel momento della propria morte, ha deciso di cedere lo scettro del comando al suo prescelto, al più enigmatico fra i geni popolari.
Nel bene e nel male, il momento della polemica è una costante che contraddistingue ogni evento degno di nota. Non solo: ha il potere di mettere in movimento il motore del cervello volto alla produzione di una critica che dovrebbe essere quanto più oggettiva. Ma così non è. Un istante dopo che l’Accademia Svedese, attraverso la voce di Sara Danius, ha conferito il Premio Nobel per la Letteratura 2016 a Bob Dylan “per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della musica americana”, un grande boato si è sollevato. In effetti è inevitabile pensare che l’ascolto si sia fermato al nome di Robert Zimmermann. Perché? Perché se avessero ascoltato la motivazione di tale decisione, si sarebbero evitate domande cariche di rabbia come “cosa c’entra Dylan con il premio Nobel per la Letteratura 2016?”. Del resto, lo stesso interrogativo, acquista un’altra valenza se posto a scopo conoscitivo poiché, probabilmente, si ignora il soggetto del discorso. Anche in Italia, i detentori del monopolio del sapere hanno voluto dire la loro, come il saggio Baricco: “Premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marias perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa” (se lo dice lui, c’è da dargli retta). Per fortuna la nostra penisola è popolata anche da menti illuminate come quelle di De Gregori e del linguista (lemma da sottolineare) Tullio De Mauro, i quali ritengono che è giusto assegnare il Premio Nobel per La Letteratura a un cantautore. E vediamone i motivi.
Innanzitutto Bob Dylan non è un cantautore ma un autore di liriche, il quale invece di accompagnare la sua voce con la lira (come gli antichi greci) lo fa con la chitarra e l’armonica. Le canzoni ancor prima di essere musicate, ancor prima di esser tali, sono dei testi. I testi sono composti da parole e le parole sono contenitori di informazioni: se usate in modo efficace e lungo una data metrica, danno luogo a poesie: e la poesia, rientra nel genere letterario. È per questo motivo che l’inventore del folk-rock può battersi a duello contro Don De Lillo, Philip Roth, Haruki Murakami, Adonis e lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o, e magari portarsi addirittura a casa il trofeo del Premio Nobel per la Letteratura 2016. “Non cominciai a scrivere poesie finché non ebbi terminato il liceo. Avevo diciott’anni o giù di lì quando scoprii Ginsberg, Gary Snyder, Phillip Whalen, Frank O’Hara e gli altri. Poi risalii indietro nel tempo, e cominciai a leggere i francesi, Rimbaud e Francois Villon” dichiarò nel 1985. La poetica di Dylan nasce in un periodo storico molto particolare: sono gli anni che vedono l’omicidio di Kennedy, la tensione crescente fra l’Urss e gli Usa, la guerra in Vietnam, la crisi dei missili di Cuba. Le sue liriche sono un’arma pacifica e pacifista contro la violenza, il razzismo, ogni forma di schiavitù, la guerra e le armi nucleari. Diventano uno strumento di ribellione finalizzato alla difesa dei diritti umani. Dylan allora è il portavoce di tutti coloro che vivono all’ombra del potere e lo subiscono.
“Il primo modo per rispondere alle domande di questa canzone è iniziare a porsele. Ma molta gente deve prima trovare il vento” affermò Bob Dylan a proposito di una delle sue canzoni più famose: Blowin’ in the Wind scritta dal poeta nel 1962 e pubblicata la prima volta l’anno successivo nell’album The Freewheelin’ Bob Dylan. Di contenuto pacifista, è considerata il manifesto della generazione dei giovani statunitensi, amareggiati dalla politica del loro paese. Ci parla di guerra, ma lo fa senza usare toni forti e senza accuse. Un uomo, deve vivere, camminare (metaforicamente) a lungo prima di trovare pace in un mondo in cui la guerra appare come un istinto umano non estirpabile. La melodia, ispirata all’autore da un canto degli schiavi afroamericani (No More Auction Block), esalta le parole in modo decisivo. “Scrissi quella canzone ai tempi della crisi dei missili a Cuba. Mi trovavo in Bleecher Street di notte assieme ad altra gente e ci chiedevamo preoccupati se la fine del mondo fosse prossima. Avremmo mai visto l’alba del giorno seguente? Era una canzone di disperazione. Cosa potevamo fare? Come potevamo controllare le persone che erano in procinto di annientarci? Le parole mi vennero fuori in fretta, molto in fretta. Era una canzone di terrore”: si tratta di A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Il conflitto è qui illustrato dall’immagine della caduta delle scorie radioattive in seguito all’esplosione di una bomba atomica, ma all’interno di un discorso universale arricchito da contenuti cabalistici. The Times They Are A-Changin’, scritta poco prima dell’assassinio di Kennedy, è una lirica di protesta che divenne un’altra costante all’interno del movimento contro la guerra in Vietnam. All’indomani della morte del Presidente e negli anni che seguirono, acquistò maggiore potenza: “Volevo scrivere una grande canzone, sai, con brevi strofe concise che si accatastavano l’una sull’altra in un modo ipnotico.Il movimento dei diritti civili e il movimento della musica folk furono molto vicini e alleati per un po’ a quel tempo. Tutti conoscevano quasi tutti gli altri. Ho dovuto suonare questa canzone la stessa notte che il Presidente Kennedy e’ morto. In qualche modo divenne una costante canzone di apertura e lo resto’ a lungo”, affermò il Premio Nobel per la Letteratura 2016. Il sentimento di struggente malinconia trapela in quello che è considerato uno dei pilastri della musica folk, ovvero l’indiscusso capolavoro Mr. Tambourine Man. Qui, il Dylan poeta, si rivela nella sofferenza del protagonista della storia, un vagabondo che non ha un posto dove dormire. Sebbene Il termine “tambourine” negli anni ’60 indicasse il nome di una marca di sigarette in voga negli Stati Uniti e allo stesso tempo nello slang di New York significasse spacciatore, Dylan ha sempre preferito negare: Mr. Tambourine Man è colui che aiuta chi vuole fuggire da una realtà dolorosa. L’interpretazione resta aperta mentre ascoltiamo minuti di pura poesia.
Siete ancora sicuri che Bob Dylan non si sia meritato il Premio Nobel per la Letteratura 2016?
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