“Lapidarium”. A Roma il monumento ai vinti di Aceves
Lapidarium è “un monumento ai vinti”. Questa l’espressione lapidaria per descrivere il significato profondo ed eloquente che si cela dietro il progetto “in fieri” di Gustavo Aceves, oggi formato da 40 sculture ma che in conclusione del suo tour mondiale ne conterà ben 100. Le opere sono tutte costituite da un connubio quasi antropologico, il cavallo e la barca, che assicura una coralità alle realizzazioni senza cadere però in una sterile serialità. Intorno a questi simboli – direi archetipici – si tesse la trama delle molteplici letture di Lapidarium.
Gustavo Aceves, messicano con base a Pietrasanta da alcuni anni, ha innanzitutto espresso la crudeltà “venuta dal mare” quando gli Spagnoli portarono il cavallo nel Nuovo Mondo: un essere soprannaturale e mortifero agli occhi degli Aztechi che lo vedevano per la prima volta. Si tratta di una vicenda fondamentale per l’immaginario collettivo messicano che non poteva sfuggire all’artista nativo di quei luoghi.
Tuttavia il bagaglio simbolico di Lapidarium è ben più sostanzioso. Infatti il cavallo concentra in sé l’intera storia dell’occidente e dell’umanità. Strumento di lavoro, status sociale, compagno e mezzo di viaggio, il quadrupede è “la” civiltà e per questo protagonista indiscusso dell’iconografia di tutti i tempi. A partire dalle pitture rupestri di Lascaux, passando per l’arte classica sorta intorno al cavallo di Troia e la mediazione romana nei bassorilievi degli archi trionfali, esso diviene infine simbolo di vittoria militare durante il Rinascimento. Due interlocutori privilegiati per Aceves sono la quadriga di San Marco a Venezia (anch’essa giunta per mare) e i bozzetti del celebre cavallo di Leonardo da Vinci in onore di Francesco Sforza mai realizzato. Insomma, Lapidarium dimostra come questo animale “sia ancora oggi il simbolo di quanto di più bello e nobile abbia realizzato la cultura figurativa” specifica il curatore della mostra Francesco Buranelli.
Eppure Aceves mette in crisi questa convinzione rassicurante, ponendo il monumento all’invincibilità occidentale su una scheletrica barca apparentemente precaria. Nefasto riferimento è infatti l’imbarcazione trainata da Caronte che coniuga perfettamente storia, arte e attualità, facendoci riflettere su quanto “doloroso e pericoloso sia raggiungere l’altra sponda” e su quanto siano state perigliose le migrazioni di tutti i tempi. Teschi, cifre incise, organi pendenti, squarci e casse toraciche a vista sono i caratteri peculiari dell’arte materica di Lapidarium, ma sono anche i segni che stigmatizzano tutta la sofferenza di quei “vinti” cui la mostra è dedicata.
I colori di questi cavalli non sono certo abbandonati al caso. Le cromìe dei materiali impiegati (dal marmo alla sabbia, dalla resina al ferro ossidato) conferiscono alle sculture un chiaro riferimento topografico, identificandole con il Mare Bianco dei Turchi (il Mediterraneo), il Mar Nero, il Mar Rosso e il Mar Morto; i cavalli sembrano così quasi voler mappare gli spostamenti di un’umanità in movimento. Tuttavia anche sulla scelta dei colori si innesta un ulteriore significato. L’artista qui tira in ballo i quattro cavalieri che affliggeranno il mondo secondo l’Apocalisse di Giovanni (6, 1-8). Un monito che pesa evidentemente sulle rovine dell’umanità rappresentate da Aceves, per cui quel simbolo delle glorie belliche del Vecchio Continente svela invece come le guerre non abbiano dei veri vincitori, ma rappresentino piuttosto puntuali sconfitte.
Con un solo sguardo l’esercito di creazioni riesce a far riemergere insieme tutti questi retaggi culturali; grazie ad una forza evocativa, emotiva e artistica la mostra genera un sentimento di epicità inedita nello spettatore. Questo è dovuto anche alla grande sensibilità con cui l’artista ha disposto le istallazioni presso i Mercati di Traiano a Roma (dove la mostra, promossa da Roma Capitale, dall’Assessorato alla crescita Culturale, dalla sovraintendenza ai Beni Culturali e Archeologici e dall’Ambasciata del Messico, rimarrà fino all’8 gennaio 2017). La volontà è stata di mantenere un’armonia con la cornice non solamente estetica, ma anche culturale. A partire dal titolo latineggiante del progetto, Aceves ha proposto una continuità con la classicità del sito archeologico, creando sculture-eco delle colonne romane o inserendo dei capitelli neri – quasi in funzione di altare sacrificale –.
È intorno a quest’ultima istallazione che l’artista spiega il messaggio fondamentale del suo lavoro: l’umanità e la vitalità sopravvivono solo grazie al movimento (e infatti i suoi cavalli, rigorosamente senza zampe, trasmettono ugualmente una tensione cinetica). Un cavallo spezzato in due e diviso da una lastra di pietra è allora il simbolo della chiusura, dell’incomunicabilità e della nascita di barriere che condannano inesorabilmente l’uomo alla staticità e alla morte (e l’artista non cela riferimenti alle recenti minacce di Austria o Ungheria di innalzare muri sui propri confini). In un certo senso anche Lapidarium ubbidisce a questa istanza di crescita, essendo un’opera in fieri destinata ad accrescersi e a viaggiare ancora attraverso Istanbul, Parigi, Venezia e Città del Messico.
Insomma, “chi si ferma è perduto!” pare volerci dire Gustavo Aceves gettando uno sguardo verso ciò che eravamo e mostrandoci ciò che siamo diventati, nella speranza di una rinascita in ciò che saremo.
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