Melania Giglio: “Shakespeare non mi lascia mai”
Melania Giglio è una vera artista: talentuosa, colta, curiosa e poliedrica. Reduce dall’ultimo successo dei Sonetti d’amore al Globe Theatre, ho avuto l’opportunità di farle un’intervista che si è invece trasformata in una piacevole chiacchierata.
Comincerei dai suoi esordi: Ronconi. Non le chiedo cosa le abbia insegnato tecnicamente (anche perché è evidente), ma cosa le ha lasciato umanamente e se esiste qualche progetto in particolare in cui le sarebbe piaciuto collaborare con lui.
Beh, studiare con Ronconi ha rappresentato sicuramente un’enorme opportunità. Il suo più grande insegnamento è stato che bisogna saper vivere ogni spettacolo e ogni progetto come una sfida; che è giusto essere curiosi e mettersi in gioco. Grazie a lui ho capito come l’unico modo in cui un artista può mantenere viva la passione per questo mestiere è essere sempre disponibile alle novità. In realtà non erano previsti progetti o collaborazioni in particolare con Ronconi, ma ogni avventura era bella e unica: imparavi puntualmente qualcosa di nuovo. Certo, chissà quante cose ancora avrebbe potuto creare e insegnare!
Nel curriculum di Melania Giglio ci sono molti lavori tratti da opere non teatrali. Quale pensa sia il rapporto tra teatro e letteratura?
Credo esista un rapporto strettissimo. I testi letterari hanno sempre qualcosa da dirci. Si sa, il lavoro di trasposizione di un’opera letteraria è impresa ardua: le tematiche che può affrontare un poeta sono trattate diversamente nell’opera di un drammaturgo che pone quelle problematiche nella messa in scena. Se reciti, anche solo benino, una scena di Shakespeare o di Molière, quella scena si regge comunque in piedi da sola perché è scritta per il teatro! Ronconi fece Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana di Gadda e anche I fratelli Karamazov. Ma lui mise in scena anche della letteratura scientifica e io ho ancora il piacere e la possibilità di lavorare con Daniele Salvo – che è stato a lungo suo collaboratore – con cui ho fatto altre cose del genere.
Anche i Sonetti d’amore in scena questi giorni non sono un testo originariamente teatrale…
Esattamente! Probabilmente Ronconi non ci avrebbe appoggiati in questa impresa, ma in fondo con il proprio maestro bisogna interloquire, no? È così che si cresce, che si creano nuovi stimoli.
Prima ha citato i classici. Ebbene, pensa che anche questi abbiano ancora qualcosa da dirci a teatro?
I classici, quando vengono fatti bene, hanno una potenza incredibile e offrono ancora oggi una straordinaria capacità di rinnovamento. Ultimamente su internet ho letto polemiche (ma ormai si leggono solo queste) poiché in occasione del centenario di Shakespeare è stato fatto solo Shakespeare. Così come per l’anniversario di Pasolini era stato fatto solo Pasolini. Ma è zio Paperino che scrive queste cose? Mi sembra che stiamo andando verso un narcisismo demenziale. L’idea che il dire qualcosa di nuovo a teatro debba passare necessariamente per dei testi nuovi è sbagliata: ci sono artisti che attraverso i classici hanno rinnovato profondamente il Teatro! E io parlo essendo anche una grande sostenitrice della drammaturgia contemporanea; ho fatto molti spettacoli contemporanei, alcuni ne ho addirittura coprodotti.
Noi abbiamo fatto due settimane di recite con Le baccanti al Teatro Vascello – che ha una vocazione più sperimentale – e pensi che abbiamo avuto due settimane di tutto esaurito. Sono dei segnali chiari!
Le ha preso parte alla versione radiofonica di Lisìstrata, nel 1997. Secondo lei, oggi, qual è il destino del teatro alla radio? Crede che la sua latitanza sia dovuta ad una generale disaffezione del pubblico o invece ad una maggiore offerta del web?
Siamo in un momento di grande trasformazione che coinvolgerà in maniera profonda, inequivocabile e irreversibile il nostro modo di comunicare. La rivoluzione tecnologica cambierà anche la funzione delle opere artistiche – questo è evidente – e bisogna essere molto pronti anche a rivedere le categorie novecentesche della nostra concezione dell’opera d’arte.
Una bella sfida per l’artista e il teatro…
No, questa è “la” sfida secondo me; cioè come ci relazioniamo noi rispetto alla creazione artistica. Come ci rapportiamo con la rivoluzione tecnologica? Chi riesce a capirlo meglio avrà una marcia in più.
Melania Giglio nel suo curriculum ha anche lavori legati al piccolo e al grande schermo, però sono un numero limitato rispetto all’infinita esperienza teatrale. È una scelta legata al suo primo amore?
Chiaramente il cuoco fa la cena con quello che ha nel frigo. In questi anni mi è capitato di lavorare con grandissime personalità teatrali che hanno assorbito molto del mio tempo e della mia energia e devo dire di essere stata una privilegiata. Magari avrò una fase cinematografica tarda come molti attori di teatro, però, francamente, quello che penso è che non ho avuto la necessità di dedicarmi ad altro.
Tra l’altro, lei ha prestato anche la voce a Il principe d’Egitto, un cartone animato. È stata un’esperienza divertente? Potrebbe interessarla un’altra proposta di questo genere?
Ma come no! Io ho molti amici che lavorano nel doppiaggio, nello speakeraggio. È una scelta. La giornata è di ventiquattr’ore: se uno si vuole dedicare bene ad una cosa, deve portarla fino in fondo. Anche il canto è una mia grande passione, però non mi sono mai dedicata completamente alla discografia. Finora ci sono state talmente tante cose belle da fare in teatro, appassionanti e interessanti, che francamente ho fatto ciò che mi piaceva fare.
Reduce da questa seconda esperienza al Globe degli “aperitivi shakespeariani”, che bilancio ne può fare? Ha riconfermato il successo della prima edizione?
Il Globe è sempre un teatro che dà molto agli artisti; è un teatro di matrice popolare ed è questo il bello: avere a che fare con il pubblico. Sono contenta di continuare la collaborazione con il Silvano Toti.
Melania Giglio ha dei progetti futuri? Nell’immediato o meno?
Intanto ho dei progetti molto belli con il Teatro Vascello di Roma. Qui con Giuseppe Zena, Andrea Giordana e la regia di Daniele Salvo presenteremo Il funambolo di Jean Jené in apertura di stagione, il 4 ottobre. Poi metteremo in scena, sempre al Vascello, uno spettacolo che ha avuto molta fortuna nella scorsa stagione, Dionysus, tratto da Le Baccanti di Euripide, e saremo a Taormina, poi Milano, poi ancora al Vascello. Altre cose sono ancora in cantiere e partiranno probabilmente nella stagione estiva. Per quanto riguarda la drammaturgia contemporanea riprenderemo invece una rassegna al femminile che si chiama Una stanza tutta per lei, curata da me e da Daniele di Salvo, prodotta dalla Bis Tremila di Marioletta Bideri.
Ha qualche artista in particolare con il quale non ha mai collaborato e desidererebbe invece farlo?
Eh, sì, tanti. Guardi, il mio sogno sarebbe poter fare uno Shakespeare in lingua al National Theatre, proprio nel tempio di Shakespeare. Ho fatto parecchie esperienze in Francia e anche da questo punto di vista sono stata fortunata. Mi piacerebbe rifare una grossa esperienza internazionale; sono sempre esperienze straordinarie.
Shakespeare è sempre sul comodino?
Sempre, sempre, in qualunque albergo, tournée o casa. Shakespeare c’è sempre: non mi lascia mai.
Ha qualche rito scaramantico prima di entrare in scena?
No, il mio rito scaramantico è stato abbandonare tutte le scaramanzie teatrali. Sono entrata in scena completamente vestita di viola, ho messo in scena degli specchi e poi li ho rotti. Forse anche questo è essere scaramantici, no?
Quanto conta l’età per una donna nel teatro? A livello artistico
Credo che l’età abbia molta importanza. Io non sono di quelle che dicono che a qualunque età puoi fare qualunque cosa. Non è vero. Per esempio, io adesso non accetterei di fare Giulietta: mi sentirei in imbarazzo a quarant’anni! A volte le attrici vengono quasi sommessamente colpevolizzate perché maturano, perché invecchiano o perché ci sono le prime rughe. Si rende un po’ la vita difficile alle donne in questo senso. Ecco, io mi sono sempre ribellata a questo tipo di schiavitù: ho quarantatré anni e lo dico. La cosa che possono dire è se me li porto bene o me li porto male!
Alla luce di questa consapevolezza giusta e giudiziosa, ha un po’ di nostalgia nei confronti di quei ruoli che ormai non potrebbe più fare? O meglio, che non si sente più di interpretare?
In questo sono molto fatalista. Non ho rimpianti. Certo, se lei mi dice: “ti dispiace di non aver mai fatto Ofelia?” la risposta è sì, è chiaro. Però lo dico come le direi “sì, mi spiace di non aver mai fatto cinema fino ad ora”. Non sto a rodermi dai rimpianti. Cioè, ho fatto Uno sguardo dal ponte, ho fatto Elena in Sogno di una notte di mezza estate, ho fatto cose talmente belle per cui non sento di essere stata depredata di qualcosa. Penso che sia stato il fato che mi ha dato dei grandi regali e ovviamente non si può avere tutto nella vita. Bisogna avere una grande curiosità per quello che deve ancora venire piuttosto che per quello che non è stato.
Adesso, se dovesse scegliere di interpretare il ruolo di una donna? Non un personaggio teatrale, ma una figura storica?
Tanti! È una scelta difficile da fare. Mi piacerebbe interpretare un ruolo politicamente scorretto; le personalità molto forti, molto scomode sono quelle che mi affascinano di più. Mi piacerebbe, per esempio, interpretare Rosa Luxemburg; oppure mi piacerebbe interpretare un film sulla vita di Rita Levi Montalcini: donne che abbiano una storia importante, significativa; delle donne che con la loro esperienza di vita sono state un esempio per noi.
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