Il connubio fatale arte – droga, da Tim Buckley a Luca ‘Abort’
Il profeta della Beat Generation, William Borroughs, sosteneva che la droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. È un modo di vivere. E sebbene non siano stati tutti bravi come lui a gestire la questione, in molti ci hanno provato e hanno fallito.
Gli anni Sessanta rappresentarono un momento di cambiamento radicale nella storia contemporanea e avrebbero mutato per sempre il modo di percepire e di vivere le epoche successive. Mentre le bombe devastavano il Vietnam in un conflitto armato, dall’altra parte del mondo, uomini portatori sani di pace si riunivano in comunità hippy. Quel decennio, caratterizzato da un rinnovamento generazionale vide protagonisti della scena, appunto, i giovani: desiderosi di libertà di espressione, attivi politicamente, sdoganati da ogni canone loro imposto. Ma non solo. Questo è anche il tempo in cui le nuove droghe si diffondono a macchia d’olio e divengono fenomeno di massa: dalla psichedelica Lsd (precedentemente usata in psichiatria e poi dichiarata illegale nel 1967) alla devastante eroina (soprattutto negli anni Ottanta). Se volessimo rintracciare le origini del connubio arte – droga, è proprio qui che ne troveremmo le radici. L’assunzione di droga divenne un rituale d’iniziazione collettivo rintracciabile anche nei concerti (come ad esempio a Woodstock),un modo di viaggiare restando fermi e una fonte di ispirazione e di evasione per gli artisti. E così, essendo state le porte della percezione spalancate (citando Aldous Huxley), abbiamo avuto l’onore di assistere ad alcune performance in grado di eludere la dimensione spazio-tempo. Gli artisti sono creature di natura ribelle e sebbene l’arte non sia sinonimo di droga, tocca fare i conti con la realtà dei fatti: la storia narra che molti di loro sono morti a causa di un’overdose. Una premessa è necessaria: questo non sarà il solito articolo che vede come oggetto le star del Club of 27 ( Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse), ne sappiamo fin troppo e ben poco resta da aggiungere.
Era il 1965 quando un pittore scrisse al margine di un suo quadro “Fin”. Sarebbe stata la sua ultima parola, mentre un’overdose di barbiturici lo stava trascinando a miglior vita nella sua casa a Barcellona. Il suo nome era Alberto Greco. Nato a Buenos Aires nel 1931, Greco è stato uno dei più grandi esponenti dell’arte informale e concettuale, ma non è conosciuto soltanto per la sua opera bensì anche per il suo carattere provocatorio che in Italia, ad esempio, gli causò l’invito da parte delle autorità a lasciare il bel paese. Nel 1962 Carmelo Bene lo scelse come attore in Cristo 63 nei panni dell’Apostolo Giovanni, mai errore fu più fatale: salì sul palco completamente ubriaco e la sua intemperanza causò la censura repentina dello spettacolo. Come se non bastasse nello stesso anno, durante la Biennale di Venezia, scatenò il panico al passaggio dell’allora Presidente della Repubblica liberando da una gabbia una moltitudine di topi. La sua offensiva si rivolse anche contro il cattolicesimo e la manifestò mascherandosi da suora mentre si svolgevano le cerimonie in occasione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Alberto Greco visse la sua vita come opera d’arte itinerante, un’opera scritta sul corpo e che prende vita dal corpo: del resto sulla parete, prima che l’overdose lo uccidesse, annotò la frase “questa è la mia migliore opera”. Il suo è stato un suicidio programmato, fortemente desiderato.
Quando si parla di Tim Buckley, si è soliti definirlo come genio incompreso perché per lungo tempo lo è stato. “Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”, disse di lui il chitarrista Lee Underwood. Nato nel 1947 Tim fu non solo un folksinger, ma un vero studioso e ‘musicista della sua voce’. Dall’anno del suo primo album omonimo nel 1966 (anno che vide anche la nascita di suo figlio Jeff) all’età di appena 18 anni, la sua musica procederà di pari passo alla sua tossicodipendenza. Che fosse una giustificazione o la verità, Tim affermava di fare uso di sostanze stupefacenti come rimedio alla sua insicurezza e invalidante timidezza. Il suo primo vero capolavoro giunse nel 1968 con Happy Sad: la musica si abbandona a toni jazz e del caldo folk. Dopo Lorca e Starsailor (disco che fu accolto in modo contrastante dalla critica), Tim subisce una battuta d’arresto. E allora, in quel momento, ormai distrutto nel fisico dall’abuso di alcol e droga, decide di prendersi una pausa e approfittarne per disintossicarsi. Ma poi, nella notte fra il 28 e il 29 giugno 1975, qualcosa cambia e dopo un cocktail a base di alcol ed eroina, Tim muore. Aveva 28 anni.
SAMO. Così un artista di New York, ma di chiare origini afro-americane, si firmava prima della travolgente fama. La sua arte è primitiva, tumultuosa, minimale: è l’espressione figurativa di Jean-Mihchel Basquiat. Nel 1976 il suo marchio personale cominciò a diffondersi su ogni superficie e angolo di Manhattan. Nel 1982 giunse alla ribalta con la mostra personale allestita e curata dalla gallerista Annina Nosei. Basquiat è affascinato dalla fama, dalla ricchezza, ma anche dalla notorietà raggiunta da alcuni suoi idoli come Jimi Hendrix e Janis Joplin, morti entrambi a 27 anni, numero fatale. Amico di Andy Warhol, Keith Haring, compagno per pochi mesi di Madonna, Basquiat ha sperimentato di tutto: dall’arte pittorica a quella musicale (Gray) e all’immancabile droga. Nel 1988, nel tentativo di disintossicarsi intraprende una sorta di itinerario purificatorio, da Dallas a Maui, per poi fare rientro a New York. È un evidente fallimento: il 12 agosto, nella sua casa in via Great Jones Street, muore. Aveva 27 anni e il referto d’autopsia stabilirà che il decesso fu dovuto a una combinazione di sostanze stupefacenti. Fra i suoi quadri più noti ricordiamo Mona Lisa (1983) che sembra essere la risposta ai dipinti di Andy Warhol con la banconota del dollaro: arte e denaro, tanto amati da Basquiat. Ma in questa opera ci comunica che per lui è l’arte ad essere più importante. I suoi graffiti continuano a graffiare la nostra pelle, ancora oggi.
Abbandoniamo un attimo i territori americani e spostiamoci in Italia. Molti di voi ricorderanno la band hardcore punk Nerorgasmo e di conseguenza anche la tragica fine del loro leader. Quando i Blue Vomit si sciolsero, il cantante Luca ‘Abort’ Bortolusso, insieme a Simone Cinotto “Fast”, Fiorenzo Massera ed Enrico “Kriminal” Falulera, fonda quello che sarebbe stato uno dei gruppi più influenti della scena hardcore non solo torinese ma italiana, insieme ai Negazione, Indigesti e Declino. Nichilismo, droga, odio, rifiuto dei valori tradizionali, sono i temi prescelti da Luca ‘Abort’. Nel 1986 dopo un’esibizione, un gruppo di skinheads neonazisti lo accoltella alla gola e l’anno successivo durante il loro concerto più famoso (a El Paso Occupato) si esibisce in modo provocatorio vestito da nazista. Nella sua voce graffiante e inconfondibile, l’unica nota stonata di Luca era la droga: l’8 ottobre del 2000, all’età di 36 anni, morì a causa di un’overdose da eroina.
Il 2002 è stato un anno davvero triste nel panorama musicale poiché scompaiono dal palco della vita due grandi artisti: Layne Staley e Dee Dee Ramone. Layne è stata la potente voce degli Alice in Chains, gruppo fondato nel 1987 che in poco tempo divenne, al pari dei Soungarden, la band per definizione di Seattle. Che Stanley fosse dipendente dalle droghe è risaputo, come non è un mistero il fatto che avesse provato a disintossicarsi ripetutamente: l’ultima volta dopo la morte di Kurt Cobain. Ma la tossicodipendenza è una finestra sul baratro da cui è più facile precipitare. C’è stato un evento che ha segnato la strada di non ritorno per Stanley: nell’ottobre del ’96, la fidanzata Demi Parrot morì nell’appartamento in cui vivevano per cause collegate all’eroina. Il loro rapporto era fatto di dipendenza e allontanamento: durante il periodo di astinenza si separavano consenzientemente con la promessa che si sarebbero rivisti una volta puliti. Così non è stato. Dal 1998 Layne non si mostrò più in pubblico: pesava 36 chili. «Per qualcuno il nome di Dio è Droga», cantava Staley in un disco, e questo Dio fatto di speedball, lo prese con sé lo stesso giorno in cui morì Kurt Cobain, il 5 aprile (ma il corpo fu ritrovato solo dopo due settimane). Dal grunge al punk rock. Quando Dee Dee Ramone nel 1988 si infatuò del rap mandò tutti in crisi. Personaggio particolare e con una cotta sin dall’età di 12 anni per la droga (storia d’amore lunga una vita), Dee Dee Ramone, pseudonimo di Douglas Glenn Colvin, è stato il bassista e il principale compositore di testi dei Ramones: probabilmente si riferiva al suo lavoro quando tre mesi prima del decesso, sul palco del Waldorf Astoria esclamò: “Ringrazio me stesso, voglio congratularmi con me”, dopo esser stato invitato da Eddie Vedder a salire. Dee Dee non era portato per l’alcol ma per la droga aveva un talento naturale e la reputava un’esperienza da vivere in completa solitudine. Ed era solo il 5 giugno del 2002, quando una dose eccessiva di eroina lo uccise.
C’è chi sostiene che la droga sia un surrogato della cultura, chi un modo per riempire un senso di vuoto insopportabile e ci sono coloro che reputano i tossicodipendenti inadatti alla vita. Ma in qualunque modo la mettiamo “ogni generazione trova la droga di cui ha bisogno”, usando le parole di Patrick Jake O’Rourke, e lo farà sempre. Ma esiste sempre una sottile differenza che separa gli altri dalla moltitudine: la funzione dell’arte. Se Alberto Greco, Jean-Michel Basquiat, Luca ‘Abort’, Layne Staley e Dee Dee Ramone fossero state delle semplici pedine degli scacchi della vita, non staremmo qui a discutere circa le loro dipendenze e abitudini. Sostanzialmente ne parliamo poiché non fu la droga a rendere loro famosi. Divennero celebri per la loro arte, che prescinde dalla sostanza e ne prende le distanze. L’arte non è droga e la droga non è arte. La droga è semplicemente la causa del loro decesso. È come se dicessimo che Chet Baker, Amedeo Modigliani, Keith Moon, Andrea Pazienza (citandone alcuni), sono ricordati per via del loro stile di vita. Ma sono i fatti e manufatti ad arrestare questo pensiero ancor prima che venga concepito. Paradossalmente potremmo affermare che sia stata la loro morte a rendere famosa la materia assassina: ma poi nell’arte, la morte cos’è precisamente?
Il profeta della Beat Generation, William Borroughs, sosteneva che la droga non è
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