Golpe in Turchia, le ragioni di un fallimento
Durato appena 4 ore, il golpe in Turchia dello scorso 15 luglio sarà ricordato come il più farsesco della storia del Paese. Una storia che si ostina a ripetersi, dal momento che si tratta del quarto colpo di Stato a opera dell’esercito turco, incaricato di vegliare sulla laicità dello Stato dal fondatore della Repubblica Mustafa Kemal Atatürk fin dal 1922, dopo la caduta dell’impero Ottomano. Come è noto l’operazione, maldestra e condotta solamente da pochi reparti militari, aveva per obiettivo la destituzione del presidente Recep Tayyip Erdoğan e il ritorno a quella laicità di Stato inscritta nella Costituzione, ma calpestata più di una volta dal conservatorismo del governo in carica. Da mesi, ormai, la Turchia vive una normalità solo apparente, e i numeri degli eventi di venerdì descrivono uno scenario fuori controllo: oltre 260 i morti e 1400 i feriti; mentre sono 2800 i militari arrestati e 2745 i giudici rimossi dall’incarico. È il pugno di ferro di Erdoğan che si abbatte sul complotto fallito, forte di una ritrovata popolarità, ora più salda che mai.
Il golpe improvvisato
Cosa è andato storto? Praticamente tutto: in primis l’imbarazzante impreparazione delle frange kemaliste dell’esercito, capace di far gridare molti al finto “autogolpe”. Fatale, ai militari, è stato l’errore di non essersi assicurarti un adeguato consenso prima di agire, sia tra i reparti dell’esercito che tra la popolazione. Ma la lista degli sbagli dei golpisti è davvero lunga, forse troppo: il mancato blocco dei social network (che ha permesso al presidente di lanciare il suo appello via Facetime), l’assenza di forze numericamente sufficienti – così come di un leader, l’apparente disinteresse a prendere in ostaggio Erdoğan e neutralizzarne ogni possibile influenza. Nella memoria pubblica questo quarto golpe in Turchia resterà impresso nelle immagini dei militari spogliati e costretti a stendersi a terra in segno di resa. Un’umiliazione, col senno di poi, praticamente annunciata.
Le tensioni internazionali
Gli Stati Uniti non potevano di certo tollerare un golpe in un paese membro della Nato, soprattutto se tanto strategico nella risoluzione della crisi siriana. Eppure, anziché tenere fede all’articolo 5 del trattato che lega i Paesi membri, Washington è stata a guardare in silenzio. Le prime dichiarazioni di Obama sono arrivate solamente a tarda notte, quando ormai la disfatta dell’operazione era cosa nota. Una cautela che non è sfuggita ad Ankara: il ministro del lavoro turco ha infatti ipotizzato apertamente la regia statunitense dietro il fallito golpe in Turchia. John Kerry nega tutto e mette in guardia da accuse avventate che potrebbero danneggiare i rapporti diplomatici. Ma la miccia tra i due paesi è accesa, alimentata dalla richiesta d’estradizione per Fethullah Gülen, ritenuto da Erdoğan la mente dietro i fatti di venerdì, e dalla chiusura di Ankara della base statunitense a Incirlik, dove partono i raid aerei contro i miliziani Isis in Siria.
La lezione del fallito golpe in Turchia
Nel giro di una notte, il peggiore degli incubi di qualsiasi capo di Stato si è trasformato per Erdoğan nella migliore delle opportunità politiche. Il 2016 è stato un annus horribilis per il presidente turco, la cui popolarità ha iniziato a vacillare in un momento molto difficile per il paese, schiacciato dal terrorismo e da un’economia – un tempo in pieno boom – ormai stagnante e incapace di attirare nuovi investitori. Presto o tardi, il leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) – al governo da 14 anni – avrebbe perso le elezioni. Il golpe del 15 luglio ha ribaltato la situazione a suo favore. Erdoğan ha dato prova ancora una volta di megalomania e scarso interesse per i diritti umani, eppure ne è uscito trionfatore. Nella notte del golpe in Turchia, il leader dell’Akp non si è fatto scrupoli a invitare la popolazione a “resistere” e scendere in piazza sfidando l’esercito, senza apparentemente preoccuparsi delle possibili (e tragiche) ripercussioni che avrebbero potuto abbattersi sullo scudo umano. La partecipazione dei turchi è stata massiccia e determinante, e gli ha permesso di rientrare a Istanbul da vincitore. Forte del consenso della maggioranza del popolo, ora Erdoğan è libero di compiere quelle modifiche alla Costituzione (promulgata dai militari durante il golpe del 1980) che voleva da anni: l’eliminazione dell’eredità militarista e laicista della Repubblica e l’istituzione di un modello incentrato sul presidenzialismo, volto a legittimare definitivamente quegli ampi poteri che di fatto esercita già da tempo. Il tentativo fallito di parte dei militari segna la fine degli interventi dell’esercito in politica. Ma che i militari non abbiano preso il potere non significa affatto che la democrazia turca non sia in equilibrio precario su un crinale pericolosissimo.
Vai alla home page di Lineadiretta24
Leggi altri articoli dello stesso autore
Twitter autore: @JoelleVanDyne_