Mel Brooks: “L’umorismo è solo un’altra difesa contro l’universo!”

Quella del 1926, fu un’annata mediocre per il vino e a Dioniso, nell’attesa di tempi migliori, non rimase che rifugiarsi nella grotta delle Ninfe per prendersi cura dei suoi grappoli d’uva. E se costui si adombrava, un’altro veniva alla luce, strappato dal ventre di una diversa Semele: Mel Brooks.

“Persino nell’uomo primitivo il bisogno di ridere era vitale per la sua sopravvivenza emotiva”, dichiara il Narratore de La pazza storia del mondo (1981), Mel Brooksfilm scritto e diretto da Mel Brooks. È significativo cogliere, in questa frase, un tema che intreccia la sfera propriamente del vissuto alla produzione cinematografica: la comicità e la precisa funzione che nella società essa copre. Infatti, secondo il filosofo francese Henri-Louise Bergson, è attraverso il riso che si denunciano e si correggono gli atteggiamenti devianti degli uomini rispetto all’ordine stabilito dal sistema su cui si fonda la civiltà. Ed è in questo caso che il riso diventa sinonimo di castigo, di punizione. Ma queste due personalità differenti nella loro espressione del genio, Mel Brooks ed Henri-Louise Bergson, condividono ancora un altro aspetto: sono entrambi figli di genitori ebrei. Brooks, non solo non ha mai fatto mistero del suo credo ma lo ha collocato, insieme al suo brillante umorismo, nei film: “Sono coloro che hanno la più giusta ragione per piangere, ad aver insegnato a ridere a tutti gli altri” ha dichiarato. E lui lo aveva capito sin dalla tenera età, quando adottò la comicità come arma di difesa contro l’aggressività dei suoi coetanei. Ma allora il bambino Mel Brooks non c’era, né in quanto nome, né in quanto operato: prima della costruzione del mito, il 28 giugno 1926, a Brooklyn, nasceva, all’anagrafe, Melvin Kamisky. Ashkanaz era il nome con cui il giudaismo medievale identificava la Germania, ebrei ashkenaziti erano Max Kamisky e Kate Brookman, genitori del futuro regista.

La chiave del successo è l’accettazione, la consapevolezza il suo strumento. È così che nasce la rappresentazione scenica di Mel Brooks “dal fatto di non essere stato baciato da una ragazza fino all’età di sedici anni. Viene dal sentimento che, come ebreo e persona, non ti adatti alla maggioranza della società americana”. È nel momento in cui la percezione di sé stessi cambia e si modifica, l’immagine che trasmettiamo agli altri, si concretizza come il frutto del potere che è possibile esercitare attraverso la commedia (come in questo caso). L’incomprensione crea barricate sterili, la comicità è l’arma, dolce e amara, che affrontando ostacoli (talvolta generazionali) li rende accessibili e comprensibili alla massa. E come Charlie Chaplin e Buster Keaton, Mel Brooks fa muovere i suoi personaggi all’interno di una scenografia surreale, come fra la realtà e il sogno, fra il vero e il falso, e ci riesce attraverso la prepotenza dei dialoghi, indiscussi protagonisti dei suoi film.

La vita e la commedia, in Brooks si fondono, a tal punto da personificare egli stesso una macchina teatrale itinerante: dall’infanzia fino all’esperienza della Seconda Guerra Mondiale, quando intrattiene la camerata con parodie ed imitazioni. Dopo il tempo della lotta arriva la stagione dell’amore: un primo matrimonio lo lega a Florence Baum, dalla quale ha tre figli; ma è il legame con Anne Bancroft (Premio Oscar nel 1962 per Anna dei miracoli di Arthur Penn), unione che dura quarant’anni, a favorire l’apertura delle porte del successo: è lei a spingerlo verso il cinema. Brooks, che intanto lavora come autore televisivo, approda sul grande schermo nel 1968 con Per favore, non toccate le vecchiette, una satira perfetta e brillante del meccanismo delle produzioni teatrali e sancisce la nascita della fortunata collaborazione artistica con l’attore Gene Wilder il quale, nel lungometraggio, veste i panni di Leon Bloom, un impiegato delle imposte. Ma è lungo il decennio degli anni Settanta che Brooks arriva all’apice del successo: nel 1974 con Mezzogiorno e mezzo di fuoco, la parodia di un genere così caro agli Mel Brooksamericani, il western, è così irriverente, esilarante e dissacrante da catturare, attraverso la figura del pistolero ubriacone (Gene Wilder), sia il grande pubblico che la critica. Nello stesso anno dona agli spettatori non solo un’altra pellicola, Frankenstein Junior, ma regala altre due figure in grado di catturare nell’immediato l’immaginario collettivo: la ‘creatura’, ovvero il mostro bizzarro e e disorientato di Peter Boyle e soprattutto l’assistente di Frankenstein: Igor, grottesco e dall’aspetto ripugnante, interpretato da Marty Feldman, capace di provocare risate impossibili da contenere ogni qualvolta entra in scena: “Aspetti, padrone, potrebbe essere pericoloso… Vada avanti lei!”. Ma il nonsenso, l’assurdo, il genere propriamente demenziale firmato Mel Brooks lo vediamo nelle parodie: in Alta tensione (1977) al centro del mirino è il maestro dell’orrore Alfred Hitchcock; nel 1987, ad essere colpito è il mondo nerd: addio Star Wars benvenuto Spaceballs, arrivederci Lord Darth Vader, benarrivato Lord Casco: “Manca l’aria qui dentro!”.  A concludere il ciclo caricaturale del panorama hollywoodiano sono i film Robin Hood: un uomo in calzamaglia (1993) e Dracula morto e contento (1995). Regista, produttore e attore di numerosi film, Mel Brooks con la sua versatilità d’ingegno e personalità poliedrica, è attore protagonista (insieme alla moglie) nel 1983 del film Essere o non essere di Alan Johnson (remake di Vogliamo vivere!, pellicola del 1942 per la regia di Ernst Lubitsch) in cui la comicità è il dispositivo per affrontare e allontanare gli spettri della tragedia chiamata vita.

“All’origine del motto di spirito ho dovuto postulare un pensiero preconscio abbandonato per un momento all’elaborazione inconscia; il motto di spirito è quindi il contributo che l’inconscio fornisce alla comicità”, scriveva Freud in un saggio sull’umorismo. Il motto di spirito, ovvero la battuta, coinvolge la sfera del preconscio ed è un atto creativo liberatorio dove l’appagamento è dichiarato nell’atto del ridere: ovviamente, affinché questo possa verificarsi, è necessario che vi sia sintonia fra il ‘narratore’ e il pubblico. Un’armonia che Mel Brooks ha raggiunto brillantemente sin dal suo lontano esordio, entrando in completa simbiosi con la sua platea.

Alcune persone riescono a vedere la luce al di là degli orizzonti delle difficoltà. Mel Brooks, con i suoi 90 anni di vita, ci ha insegnato che il senso dell’umorismo, l’autoironia sono strumenti efficaci, ad esempio, contro i pregiudizi. Sono estensioni delle armi da fuoco e senza che esse colpiscano concretamente, fanno breccia nella coscienza emotiva di chi ascolta. Del resto, come afferma egli stesso: “L’umorismo è solo un’altra difesa contro l’universo!”.

Quella del 1926, fu un’annata mediocre per il vino e a Dioniso, nell’attesa di tempi migliori, non rimase che rifugiarsi nella grotta delle Ninfe per prendersi cura dei suoi grappoli d’uva. E se costui si adombrava, un’altro veniva alla luce, strappato dal ventre di una diversa Semele: Mel Brooks.

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