“Il corpo è mio e lo gestisco io”, il pericolo di una conquista
La Giornata internazionale della donna era ormai già stata istituita da tempo quando uno slogan femminista recitava “Il corpo è mio e lo gestisco io”, rivendicando la libertà del proprio utero, durante quel decennio di rivoluzione in cui le donne lottavano per la legalizzazione dell’aborto. Basterebbe soffermarsi un attimo su questo motto per osservare come anni di battaglia ai fini dell’emancipazione femminile, insieme alle tante parole spese contro la mercificazione del corpo, siano andate in fumo.
Quand’è che il corpo della donna diventa merce? Siamo lontani dai tempi in cui la questione veniva sollevata a causa delle forme perfette e photoshoppate proposte dai mass media, forme che venivano offerte come modelli da seguire, e via dicendo. Questi argomenti sono ormai di gran lunga superati. Perché? Perché siamo arrivati alla mercificazione vera e propria. Il significante si riconduce a tutta la totalità del suo significato: l’utero, che per natura non sarebbe oggetto di commercio, diventa merce di scambio attraverso la pratica dell’affitto. L’utero in affitto appunto, o meglio, la maternità surrogata, conduce in un limbo in cui il diritto di libertà induce a pensare che dovrebbe essere ridimensionato. Forse. Il voler diventare genitori sfruttando e usando il corpo di un’altra donna non è un diritto; forse una pretesa? Molte donne sono in grado di essere carnefici e vittime di loro stesse. E mentre orfani, da qualche parte, attendono una casa calda d’amore, altri bambini senza identità vengono confezionati e poi consegnati. Come dei pacchi. E’ doverosa una precisazione: non vi è nessun attacco alla comunità gay, basti ricordare che le femministe hanno fatto campagne anche per gli omosessuali. La polemica è rivolta a una logica che legittima situazioni per cui la superficialità dovrebbe essere bandita.
La Giornata internazionale della donna, dicevamo. L’8 marzo, ornandosi di mimose, si tinge di un colore caldo per celebrare una giornata che dovrebbe rimembrare la conquista dei diritti da parte del genere femminile. Ma alla luce di questo nostro vivere contemporaneo e quotidiano, in cui i risultati delle lotte delle nostre compagne (a quanto pare dimenticate) vengono vanificati da atti di involuzione, cosa dovremmo festeggiare precisamente? Onorare il passato, senza dubbio. Sostenere coloro le quali ancora combattono per la liberazione dal potere maschile, ovviamente. Ma, oggi, l’Occidente dovrebbe fermarsi e ripercorrere la storia tutta al femminile, liberandola da quei racconti incerti e fantasiosi intorno alla festa dell’8 marzo nella ricerca di un mito di fondazione, poiché potrebbe apparire come una giustificazione agli occhi di chi si voglia sul motivo dell’esistenza stessa della Giornata internazionale della donna.
Non abbiamo bisogno di pretesti per legittimare una ricorrenza, non abbiamo bisogno di raccontarci storie infondate sulle operaie morte, perché tante donne perdono la vita oggi e tante sono le vittime di ogni genere di violenza. Non abbiamo bisogno di una Giornata internazionale della donna per ricordarci, con cadenza annuale, che esistono altre donne nel mondo: esistiamo ogni giorno. Piuttosto necessitiamo di unione e coraggio affinché la nostra lotta continui. Lo dobbiamo alle suffragette e a tutte le donne che sono seguite: è grazie a loro se oggi godiamo ed esercitiamo i nostri diritti. Lo dobbiamo alla Storia. E soprattutto, lo dobbiamo a noi, noi che non vogliamo soltanto le mimose, ma “Vogliamo anche le rose”.
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