Umberto Eco e la fenomenologia televisiva
“Una volta chi si sentiva abbandonato dal resto dell’umanità trovava consolazione nel fatto che l’Onnipotente, almeno lui, era ogni giorno testimone dei suoi affanni. Oggi quella funzione divina è decisamente sostituita dall’apparire in televisione”, scriveva Umberto Eco nell’articolo Dio non c’è più, la tv invece sì, su L’Espresso del 23 dicembre 2010. Classe 1932, Eco si è spento a Milano il 19 febbraio scorso. In vita è stato filosofo e scrittore, attento studioso dell’influenza che i mass media hanno sulla cultura di massa.
Torniamo indietro nel tempo, precisamente alla Rai del boom economico: una miniera di innovazione e d’avanguardia, ma nessuno aveva la consapevolezza di quanto peso avrebbe avuto nel cambiamento dei modi e dei costumi italiani. Allora dove nasce la riflessione di Umberto Eco sulla televisione? Ovviamente devono esserci state delle radici, radici che risalgono al 1954. Quell’anno, Filiberto Guala, amministratore delegato Rai, aveva indetto un concorso per l’assunzione di nuovi funzionari. In quel momento saltarono all’occhio i nomi di Umberto Eco, Furio Colombo e Gianni Vattimo: avrebbero dovuto svecchiare i programmi, ancora troppo legati alle personalità provenienti dall’EIAR. Nell’ambiente divennero i “corsari”. E’ proprio da questa prima esperienza che Eco trasse spunto per un saggio del 1961, poi pubblicato nell’opera Diario minimo: Fenomenologia di Mike Bongiorno. Questo articolo, considerato uno dei primi saggi critici televisivi, affronta la tematica della massificazione mentale come prodotto del consumismo televisivo. “La Tv non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l’everyman. La tv presenta come ideale l’uomo assolutamente medio […]. Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna”, scrive Eco. E, dopo aver precisato che si occuperà del personaggio e non dell’uomo, inizia la Fenomenologia. La sua analisi sulla mediocrità e sulle convenzioni televisive è terribilmente attuale.
E’ con la pubblicazione del saggio Opera aperta che diede le basi teoriche al Gruppo ’63, il movimento d’avanguardia artistico e letterario italiano: il concetto di apertura si riferiva alla reazione dell’arte e degli artisti alle dinamiche dell’indeterminato, del caso; un approccio che interagiva con le varie discipline che trovavano nei mass media un potente strumento di divulgazione. Il Gruppo ’63 fu una strana forma di rivoluzione letteraria e, durante un’intervista di Gianni Rota andata in onda su Rai Storia (Eco della storia incontra Umberto Eco), Umberto afferma che la riflessione principale era su dove stesse andando il linguaggio. A favorire la nascita di questo movimento fu la ripresa economica: “siccome non dovevamo più sfamarci, potevamo fare avanguardia”. Desiderava, insieme agli altri del ’63, cambiare le cose che apparivano antiche e retoriche nel mondo della scrittura. Nonostante ciò avrà sempre uno sguardo ironico verso l’avanguardia.
Quando Umberto Eco approdò in televisione, c’era una commistione di due discorsi, uno “alto” e l’altro “basso”. Era del parere che il livello televisivo delle origini fosse più alto di quello di ora: in prima serata si davano opere di Pirandello e di Shakespeare, ad esempio. “Se da una parte, la televisione, sul piano linguistico ha contribuito (Tullio De Mauro dice che la società era divisa dai dialietti e la tv l’ha riunificata nell’italiano standard), sul piano culturale, rispetto alle origini, non ha fatto passi in avanti, a parte come in Rai Storia e pochi canali di nicchia”, affermava. Proprio perché prima, a collaborare con la giovane Televisione di Stato, veniva chiamata la cultura dominante degli intellettuali. Con l’avvento delle emittenti private, negli anni ’70-’80 arriva in Italia una nuova televisione, molto diversa dalla vecchia. Ora tutto diventa disinformazione, finzione, intrattenimento. Fu proprio Umberto Eco a coniare il neologismo “neotelevisione” e il temine apparve per la prima volta in La trasparenza perduta (articolo del 1983). Secondo il maestro, “la caratteristica principale della Neo Tv è che essa sempre meno parla (come la Paleo Tv faceva o fingeva di fare) del mondo esterno. Essa parla di se stessa e del contatto che sta stabilendo con il proprio pubblico. Non importa cosa dica o di cosa parli (anche perché il pubblico con il telecomando decide quando lasciarla parlare e quando passare su un altro canale). Essa per sopravvivere a questo potere di commutazione, cerca di trattenere lo spettatore dicendogli: io sono qui, io sono io, e io sono te”. Moltiplicazione dei canali, programmazione a flusso, categorie generiche: insomma, la nostra tv.
E se “la tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore, il dramma di internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”, affermava Eco che sperava – o forse intuiva – un ritorno alla carta stampata. Memorabile, nel rapporto Umberto-Internet, resterà l’articolo Ho sposato Wikipedia? in cui, oltre ad essere evidente il suo spirito critico e ironico, a tratti è anche divertente.
Eco, dicevamo, cominciò a interessarsi all’influenza dei mass media nella cultura di massa negli anni ’50-’60. Oltre a Diario minimo (1963), altri articoli confluirono in Apocalittici e integrati (1977). Nel capitolo Il fascismo eterno del saggio Cinque scritti morali, tra i vari temi trattati vi è il “populismo qualitativo Tv e Internet”. Di resistenza al potere dei mass media ne parlò ne Il costume di casa (1973).
E adesso che si è spento, saremo in grado di badare autonomamente alle nostre teste?
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