Al Teatro Vascello il Porcile di Pasolini, favola amara senza eroi

PorcileAl Teatro Vascello va in scena fino al 28 febbraio Porcile, tragedia tra le più controverse di Pier Paolo Pasolini. Scritto nel 1966 e poi trasposto nell’omonimo film, il dramma si dispiega in 11 episodi che si svolgono sullo sfondo della Germania dei tardi anni ’60, nel vivo delle contestazioni studentesche e nel momento storico in cui la borghesia si va affermando come classe sociale dirigente. Julian, figlio venticinquenne di una coppia di industriali borghesi, è l’emblema pasoliniano di una diversità radicale e violenta, che all’ipocrisia e all’anaffettività familiare preferisce un oggetto d’amore insolito e grottesco: i maiali del porcile, con cui si accoppia in segreto. Non c’è eroismo né gloria in questa sua innaturale scelta, vissuta esclusivamente come tragedia, personale e collettiva. Non si tratta nemmeno di un atto di ribellione: Julian è un ragazzo “né obbediente né disobbediente”, come lamenta suo padre, che semplicemente sceglie di non essere, di lasciarsi divorare dalla realtà piuttosto che piegarvisi. La sua è una fuga dalla vita, un estremo rifiuto del mondo e di ogni possibile ruolo, incluso quello generazionale che lo vorrebbe tra i protagonisti delle contestazioni sessantottine.

Nemmeno a questi ultimi, che in segno di protesta vanno “a pisciare sul muro di Berlino”, la critica pasoliniana fa sconti di alcun tipo: Oggi, un giorno d’agosto del ’67, non ho opinioni. Ho tentato di averne, e ho fatto di conseguenza il mio dovere; così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista dice Julian a Ida, giovane che lo ama con ostinata insistenza seppur non ricambiata. L’incapacità di scelta di Julian si traduce così nella più totale apatia e auto-isolamento. Dall’altra parte stanno i suoi genitori: la signora Klotz, una donna ridicolmente passiva e il signor Klotz, padre iroso e autoritario, iperconsapevole del suo ruolo di predatore nella scala sociale. Nel Porcile pasoliniano non ci sono né eroi né vincitori e tutti finiscono per essere divorati da una società cannibale mai sazia: sia che di quest’ultima si scelga di farne parte che di allontanarsene. Il vizio di Julian in particolare è vissuto come colpa suprema, addirittura paragonabile ai crimini di guerra nazisti di cui si macchia l’avversario in affari del signor Klotz. Entrambi gli industriali usano i loro inquietanti segreti come moneta di scambio: la zoofilia del proprio figlio nel primo caso e la complicità all’orrore nazista nel secondo; due sordide verità che dapprima sperano di impiegare per annientarsi l’un l’altro, salvo poi risolvere felicemente la contesa con un’amichevole fusione aziendale.

PorcileTesto non facile e scelta audace da portare in scena, Il Porcile di Valerio Binasco carica la rappresentazione di elementi dall’immaginario orwelliano, presentando allo spettatore un’umanità grottesca e zoomorfa al servizio di una divinità-denaro che ricorda da vicino il teatro di Brecht. Non è semplice affrontare e proporre un dramma complesso e denso come Porcile: la regia di Binasco ci riesce magistralmente rimanendo fedele alle suggestioni stranianti del linguaggio di Pasolini. Nonostante la difficoltà di una prosa dai contenuti non sempre immediati, le ottime e intense prove attoriali mandano avanti egregiamente un testo dal ritmo estremamente lento, basato esclusivamente sulla parola, in cui l’azione è quasi del tutto assente. Il risultato è uno spettacolo profondamente commovente e spiazzante, che ha in sé tutti i temi della poetica e del pensiero pasoliniano e ne ricalca, per certi versi, la tragica vicenda biografica. “Niente di ciò che è di tutti è mai stato mio”.

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