Crisi Spagnola, Sanchez al centro (del fuoco)
A quasi due mesi dalle elezioni del 20 dicembre la situazione spagnola prende una nuova piega, ma la soluzione alla crisi istituzionale derivata dalle urne sembra non essere dietro l’angolo.
Come previsto, il Re Filippo VI il 2 febbraio ha affidato l’incarico di formare un governo al leader del Partito Socialista Spagnolo (PSOE), Pedro Sanchez, che ha accettato richiamando tutti i partiti alle proprie responsabilità. Un monito che Sanchez rivolge sia all’esterno (Podemos) che all’interno, a quel Partito Socialista i cui potentati sembra si muovano ognuno secondo le sue prerogative e non hanno mancato, in questi giorni, di mettergli i bastoni tra le ruote. Il suo cammino, infatti, si delinea più che impervio.
Innanzitutto ricordiamo che il segretario del PSOE ha accettato l’incarico dopo l’inaspettata rinuncia di Mariano Rajoy, leader del PP (che ha ottenuto la maggioranza dei voti alle elezioni), che gli ha ceduto la patata bollente della formazione del governo in una situazione in cui, sostanzialmente, nessun accordo tra due dei quattro partiti di maggioranza (PP e Ciudadanos a destra; PSOE e Podemos a sinistra) basterebbe ad avere il numero sufficiente di deputati in parlamento.
In più Sanchez si trova assediato su due fronti: a sinistra la proposta dirompente di Podemos avanzata da Iglesias contestualmente alla rinuncia di Rajoy (che prevede, oltre a una partecipazione massiccia di Podemos stesso, la partecipazione al governo di Izquierda Unida con almeno un ministro); a “destra” le pregiudiziali interne del suo partito emerse soprattutto al Comitato federale tenutosi a fine gennaio. Gran parte dei socialisti vede infatti come indigesta un’alleanza con Podemos, e ritiene velenosa, manco fosse veleno per davvero, l’apertura agli Indipendentisti, in particolare per quanto concerne l’eventualità di un referendum di autodeterminazione catalano o basco.
Il problema è uno (e Iglesias lo sapeva bene): Psoe, Podemos e Izquierda Unida insieme non hanno i numeri. Quindi o si apre il dialogo sulla questione Catalana e con i Baschi del Pnv (i quali hanno fatto capire chiaramente che certamente non voteranno mai per i popolari, ma che per loro l’autodeterminazione è un punto centrale) oppure il Psoe e Sanchez hanno le mani legate (escludendo ovviamente un’alleanza con il PP e con Ciudadanos che per una questione di veti incrociati non parteciperebbe mai a un governo con PSOE e Podemos che dal canto suo non ha la minima intenzione di formare un governo con Ciudadanos).
Pedro Sanchez si trova quindi, più che con la palla il mano, al centro di un fuoco di sbarramento incrociato. Aveva chiesto un mese per le consultazioni (cominciate subito il 3 febbraio) al Presidente del Congresso[1], ma PP e Podemos hanno insistito per due settimane, e a metà febbraio dovrebbe tenersi la prima sessione, momento dal quale se non si forma un governo entro 60 giorni si torna alle urne.I popolari hanno già scaldato i motori e insisteranno sul fatto che se non si riesce a formare un governo è per colpa dei socialisti, Podemos ha fatto la sua mossa accreditandosi come partito di responsabilità disposto a governare, cedendo su qualche punto.
Ai socialisti non resta quindi, loro malgrado, che firmare una svolta significativa (della quale un giorno potrebbero pure farsi vanto). Oppure una significativa auto-condanna a morte.
[1] In prima convocazione la Costituzione esige la maggioranza assoluta dei voti del Congresso mentre in seconda convocazione, 48 ore dopo, basta una maggioranza semplice.
Fonti.
Il Manifesto, El Pais.
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