Chaplin, il precursore dei nostri “Tempi Moderni”
“Il disagio è un valore”, così potrebbe cominciare una disamina su uno dei maggiori e discussi esponenti del secolo scorso, Sir Charlie Chaplin. Se da un lato la sua vita privata lo aveva profondamente segnato sin dall’età adolescenziale, attraverso difficoltà oggettive tra povertà e follia, la codifica che si trasfigura in immagini e racconti è, in sintesi, arte del sociale per il sociale. Ad ottant’anni esatti dalla prima proiezione di una delle pellicole destinate a cambiare la storia tout court, Chaplin e i suoi Tempi Moderni riemergono con la stessa forza propulsiva, provocatoria e delirante di un tempo; polemici e taglienti come un disco punk-rock di fine settanta, romantici e malinconici come un dipinto di Friedrich, visionari come uno scritto di Marshall McLuhan o un romanzo di George Orwell. Charlot, alter ego del regista inglese, incarna, oltre l’umana vanesia dei baffi, la dignità del bastone e il cappello, l’anticonformismo dei larghi calzoni, e l’intralcio delle grosse scarpe rotte, tutti i disagi del XX secolo, alieni e terreni, vecchi e nuovi, dell’uomo ai cancelli dell’alba industriale, post–umana.
Tempi Moderni è un gigantesco affresco sociale, politico nelle intenzioni, ironico e tagliente nell’esecuzione; l’accusa alla sua indole filo comunista viene qui riletta in chiave equivoca, come fosse un sentimento al di fuori dell’autore stesso o, più propriamente, un inevitabile fatale destino o un’esigenza indispensabile del genere umano tutto. La sopravvivenza al gioco della vita è l’ingranaggio centrale di un racconto dove la solidarietà e l’universo umano, miseri nel destino ma nobili negli intenti, si susseguono senza urlare, con garbo, con muta consapevolezza e devozione. La nevrosi, la macchina infernale, i loop ripetitivi, sono i nemici indispensabili della nuova era industriale che rendono l’uomo snaturato e schiavo delle sue invenzioni. Le intuizioni, di cui Chaplin rivendica la paternità, hanno generato un susseguirsi di dibattiti negli anni a seguire in svariati campi e maestranze, dalla psicologia alla pittura, dalla letteratura alla musica facendosi “portavoce” del diritto dell’umana specie; la Welcome To The Machine, floydiana gelida tragedia sull’alienazione dell’uomo e la miriade di rivolte operaie a seguire sono esempi che suggellano l’animo avanguardista di Chaplin, dinamico nella sua personale visione della storia contemporanea, monito oggettivo con le sue innumerevoli intuizioni profetiche. L’uomo, il lavoro, la dignità, la famiglia, quei diritti inalienabili che pur sfuggono oggi come allora; quasi nulla sembra cambiato dal racconto che l’attore tira su con maestria ed eleganza, con ferma consapevolezza intrisa di indomito coraggio e positività.
Lo sguardo profondo sui Tempi Moderni indagati da Chaplin, non riguarda solo le gag della pellicola in questione; già nei suoi precedenti lavori, The Immigrant (1917) su tutti, l’autore sembra anticipare il moderno dramma dell’emigrazione-immigrazione prima ancora di Schengen, della Primavera araba e dei piccoli cadaveri sulla sabbia bianca . La sua stessa condizione di profugo, inglese di nascita e americano d’adozione, lo rende un eroe senza patria, un moderno Ulisse inviso agli Dei del capitalismo. Le sue idee comuniste, il maccartismo imperante degli anni cinquanta, infatti, lo allontanarono dagli Stati Uniti D’America negandogli il visto fino alla consegna dell’Oscar alla carriera del 1972. Allo stesso modo l’Inghilterra, sua patria d’origine, non gli rese adeguato lustro ed onori, irritata dal successo cosmico ottenuto al di là dell’oceano, fuori le mura materne. Il dramma dei profughi, già sottolineato dalla sua pellicola d’inizio secolo, diventa agghiacciante oggi nel suo incedere insoluto; l’inadeguatezza degli interventi militari, la mancanza di un piano umanitario congruo e l’assenza di politiche d’integrazione sociale, oggi più che mai, riecheggiano in quel sordo grido lanciato dai suoi film e dalla sua maschera; lo sguardo del vagabondo, inadatto al cambiamento, disarmato dalle ingiustizie, indifeso dal potere, trova riparo in quegli occhi che sempre sanno parlare, in quelle labbra che sanno sorridere e ancora meravigliarsi.
Charlot è ognuno di noi, è il simbolo dell’umana stirpe con i suoi disagi, inadeguatezze e slanci di poetica suggestione; come un Messia del XX secolo Chaplin ha scelto i panni più umili e sinceri, tra la miseria e la fame, tra l’amore e il disprezzo, tra un incontro ed un addio, per poi andare via, in pace ed in volontario esilio, in una notte di Natale, di tanti, forse troppi, anni fa.