Revenant, la definitiva consacrazione di Iñárritu
Il film dopo il trionfo, il possibile declino o la definitiva consacrazione. Revenant (Redivio), opera ultima del regista premio oscar Alejandro González Iñárritu (Birdman 2014), arriva nelle sale dopo un parto difficile, tra sceneggiature rivisitate, valzer di attori e polemiche produttive. La trama nasce da un romanzo del 2002 di Michael Punke dal titolo omonimo, che ripercorre la storia, realmente accaduta nell’America tra fine settecento ed ottocento, del trapper Hugh Galss (DiCaprio), cacciatore ed esploratore di professione, abbandonato al suo destino dopo essere stato brutalmente e mortalmente attaccato da un orso grizzly, durante una battuta di caccia. La resurrezione e la sete di vendetta per la morte del figlio che ne segue, la traversata solitaria delle desolate lande innevate a ridosso del fiume Mississippi, tra il Montana, il Sud Dakota e il Nord Dakota, lo rendono un moderno Mosè guidato dal fato verso la purificazione congiunta del corpo e dello spirito.
Lì dove la trama si spoglia di inutili complessità ed imbrogli, ridisegna un tracciato umano primordiale, l’uomo, la natura ed i suoi istinti animali, la difesa della casa, della moglie e della prole; la vita dopo la morte che si perpetua in un unico sentimento di vendetta. La chiave di lettura testuale si traduce in un iperrealismo sofisticato, uno spettacolo circense di magnifico impatto ed efficacia. Il cinema ritrova se stesso in una meticolosa ricerca del vero, oltre la magia della finzione. I primi quaranta minuti circa di Revenant, sconvolgono per bellezza e tecnica esecutiva, la mdp sembra non avvalersi di inutili giochetti di prestigio, le due dimensioni avvolgono lo spettatore sempre vivo, attento e sco(i)nvolto per tutta la durata del racconto. Il secondo atto del film invece, scatenato dalla morte del figlio Hawk, apre uno scenario meno efficace e seducente, una catarsi per la sopravvivenza dove lo spettatore rilascia la tensione emotiva troppo a lungo. Il grande filo conduttore della drammaturgia è l’istintiva difesa della prole che lega a se tre storie differenti e lontane, che convergono in un destino comune: l’orso che attacca Glass difende i suoi cuccioli preda del cacciatore; la sete di vendetta di Glass generata dal brutale assassinio del figlio Hawk per mano di John Fitzgerald (Tom Hardy); la vendetta finale che si compie per mano del capo di un gruppo di indiani Ree in viaggio alla ricerca della figlia rapita e violentata dagli invasori francesi. Lo scenario sul quale agiscono gli impulsi primordiali è quello già caro al cinema americano che in passato tanto ha prodotto sul tema dell’integrazione del nuovo continente e della nascita di uno stato Americano ponendosi come ponte tra “The New World” di Terrence Malick e “Balla coi Lupi” di Kevin Costner; il fine qui non è educativo o giudizioso, serve solo a scatenare gli istinti umani più violenti che le maschere mostrano al centro della scena narrativa. La lotta per la sopravvivenza si reitera in tutto il racconto filmico, l’uomo che attacca l’animale e viceversa, l’uomo che attacca un suo simile; la compassione kunderiana, però, prende il sopravvento nella scena della spartizione della fegato di bisonte condiviso o nelle cure sciamaniche che l’indios riserva a Glass durante la tempesta di neve; l’uccisione brutale che poi ne segue, con l’indiano impiccato dai francesi sul cui corpo campeggia il cartello “siamo tutti dei selvaggi” sprofonda la storia in un inevitabile baratro di sangue e vendette inesorabili.
L’altro grande tema su cui si intreccia la trama, il rapporto padre-figlio, appare quasi snaturato, distaccato nella sua profonda diversità: il figlio nato dall’amore di Glass per una nativa americana della tribù Pawnee, mantiene una distanza emotiva fredda come il tono fotografico degli ambienti; c’è un amore forte e indissolubile che procede però attraverso una conoscenza continua, lo scoprirsi parte dell’altro nel pericolo e nel dolore, come simbolismo assoluto della difficile integrazione tra nativi e colonizzatori. Un film epico, tragico e violento, con una speranza che apre un’epoca di integrazione e sviluppo sociale ancora in corso e sempre attuale. Montaggio e fotografia (Emmanuel Lubezky) particolarmente suggestivi sullo scenario affascinante di luoghi dove la conoscenza si perde con l’infinito.
La scelta di Iñárritu di aprirci alla svolta vendicativa del secondo atto, sembra guidarci verso un oscuramento dello spirito, quando Hugh Glass (DiCaprio), in preda al lancinante dolore per la luttuosa perdita del figlio, appanna la lente della macchina da presa con la condensa dei suoi spasmi; dopo il lungo peregrinare attraverso la guarigione del corpo, il terzo atto di Revenant si conclude, similmente, con lo sguardo dell’attore in camera a sancire la fine dell’epopea della vendetta; l’uomo che rimette se stesso e il suo giudizio nelle mani del fato e del destino lasciando che gli eventi, casuali ed interconnessi, perpetuino la vita e la morte attraverso la giustizia divina, oltre l’umano arbitrio.