Prove false sulle armi chimiche: Obama come Bush?

La celebre débacle di Colin Powell intento nel 2003 a mostrare una falsa provetta d’antrace al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, invocando il sostegno e il consenso delle nazioni della terra per la futura invasione dell’Iraq, ha determinato qualche anno dopo un collasso nella credibilità della leadership americana con pochi precedenti nel recente passato. L’elezione di Barak Obama nel 2008, già Premio Nobel della Pace sulla fiducia, era stata salutata dall’opinione pubblica mondiale come la rivincita degli ambienti democratici “meno interventisti” sui Neocons “guerrafondai” che avevano sostenuto Bush. L’avvento di Obama annunciava allo stesso tempo la riabilitazione di Washington e l’inizio di una nuova era per la politica estera americana.

Eppure, con una ciclicità che appartiene più al tragico che al farsesco, la storia sembra ripetersi ancora una volta seguendo esattamente lo stesso copione, stavolta contro la Siria.

Tutto ebbe inizio nell’estate 2012 quando Barak Obama aveva indicò la propria posizione rispetto alla Guerra Civile Siriana: la linea rossa da non oltrepassare era l’uso delle armi chimiche, se Assad avesse fatto ricorso ai propri arsenali gli USA sarebbero intervenuti sulla base di un possibile bombardamento di Damasco. Meno di un anno dopo, nel giugno 2013, Obama affermava di essere pronto ad armare i ribelli dell’Esercito Siriano Libero e disposto a forzare il Congresso qualora questo avesse negato il proprio consenso. La nuova accelerazione di Obama era giustificata dal presunto utilizzo di gas Sarin su piccola scala da parte dell’esercito di Assad, causando circa 150 morti in un anno.

Due mesi dopo, il 21 Agosto 2013, il giorno in cui gli ispettori internazionali entravano in Siria, i ribelli dell’ESL denunciavano al mondo l’utilizzo, stavolta massivo, di gas al cloro da parte dell’esercito di Assad, con la tragica morte di 1300 persone: un orribile massacro, noto come la strage di Goutha. Mentre Mosca smentiva la notizia definendola una “sciocchezza assoluta”, Obama raccoglieva le adesioni per la prima coalizione internazionale, Kerry sbandierava prove contro Assad minacciandolo apertamente in decine di interviste e la flotta USA si spostava progressivamente verso il Mediterraneo orientale. I russi e gli iraniani, in tempi diversi, si schierarono entrambi in difesa di Assad, lasciando aleggiare nelle studiatissime dichiarazioni le possibili implicazioni militari, dirette o indirette, in caso di aggressione contro la Siria.

Nell’autunno del 2013 il Governo Siriano, avvalendosi anche della collaborazione dei russi, dichiarava di essersi sbarazzato dell’intero arsenale chimico, continuando a negare di averlo mai impiegato. Eppure ancora nel settembre 2014 il governo statunitense ribadiva le accuse e denunciava che l’uso di armi chimiche era ancora in corso da parte di Damasco. A quel tempo ormai l’ISIS rubava la scena e rappresentava una nuova opportunità per far alzare i bombardieri sui cieli siriani e tentare di imporre una NO-FLY ZONE contro un nemico, lo Stato Islamico, sprovvisto di aviazione.

In questi anni, oltre alle grandi agenzie di stampa americane e alle stesse fonti governative, alcune ONG come il Syrian Obervatory for Human Rights (in realtà un minuscolo ma iperattivo organo di propaganda anti-Assad, gestito principalmente da una sola persona che vive a Londra), si sono inspiegabilmente accreditate come fonti attendibili presso la quasi totalità dei media occidentali. La quantità di materiale non verificato prodotto da queste fonti e subito rilanciato dai media internazionali ha letteralmente invaso il flusso mediatico, imprimendo una direzione ben precisa a quelli che si chiamano spin, cioè gli orientamenti iniziali e le percezioni generali indotte nell’opinione pubblica intorno a una notizia sul reale andamento della guerra in Siria.

Questo il quadro il principale costruito sul modello Saddam Hussein dai media intorno al governo siriano, mentre diversi elementi puntano ad oggi in direzione opposta. La settimana scorsa Ahmet Uzumcu, direttore dell’OPAC (OPCW) organismo per la proibizione delle armi chimiche, associazione internazionale Premio Nobel per la Pace nel 2013 che agisce spesso in collaborazione e coordinamento con l’ONU, ha reso disponibili i risultati delle investigazioni fin qui svolte che non sembrano puntare su Assad. In un primo rapporto del 4 gennaio  l’OPCW ha stabilito che il programma  di eliminazione degli arsenali siriani prosegue secondo i piani ed è stata completata la distruzione dell’intera quantità di armi chimiche dichiarate dal governo siriano.  In una successiva  dichiarazione l’OPAC ha anche ammesso di aver appurato l’uso di gas Sarin, del cui uso non ha incolpato il governo siriano e anzi avrebbe aggiunto, ma questa parte della dichiarazione di Uzumcu è controversa, che non si trattava del Sarin in possesso all’esercito di Assad. Sempre contro l’uso di gas da parte dei ribelli per poi incolpare Assad parla Raymond McGovern, ex-analista della CIA incaricato fino a qualche anno fa di fornire i report giornalieri alla Casa Bianca,  in questa intervista  pubblicata da Byoblu. Secondo McGovern, che cita fonti interne alla CIA,  John Kerry e l’intelligence erano al corrente che già la strage di Goutha, era con tutta probabilità opera dei ribelli.  A questo punto non stupirà scoprire che a queste stesse conclusioni erano giunti altri ispettori, stavolta delle Nazioni Unite, fin dal maggio 2013, in merito alle accuse di utilizzo del nervino precedenti a Goutha, come dichiarava già allora in questo video la rappresentante Carla del Ponte. Un altro episodio è l’uso di gas mostarda, confermato dall’OPAC, effettuato a Marea a novembre 2015, presumibilmente da parte  dell’ISIS in un area dove i soldati di Assad non erano coinvolti, infine gli attacchi rilanciati dai media occidentali nel 2015, quando Assad stava già smaltendo l’arsenale residuo in accordo con gli ispettori da più di un anno. John Kerry non ha mai fornito prove diverse da quelle nelle mani degli ispettori, malgrado le sue dichiarazioni lasciassero intendere altro. Nelle scorse settimane è emersa anche la denuncia di Ahemed Gheddafi, cugino del defunto Raiss, a proposito del  furto da parte dei miliziani vicini all’ISIS di armi chimiche in Libia, poi introdotte in Siria transitando per la Turchia. Il pericolo delle armi chimiche in Siria esiste, sono altri dieci i casi sotto indagine dell’OPAC, ma  le evidenze di cui il mondo dispone in questo momento non puntano verso Assad, né per gli episodi più recenti, né per quelli precedenti all’arrivo dell’ISIS.

Se Assad dovesse scagionarsi sarebbe un nuovo colpo per la credibilità della Casa Bianca, che  per la terza volta in 15 anni avrebbe cercato di aprire un conflitto già pianificato contro uno Stato sovrano sulla base di accuse fumose, montature mediatiche e false prove, contribuendo questa volta ad armare proprio le formazioni ribelli che, a cominciare dall’ISIS ma non solo, rimarrebbero le uniche possibili colpevoli dell’uso dei gas. Non si tratterebbe in quel caso degli errori della “Banda Bush” ma di un metodo, quello con cui si dispiega nei fatti la geopolitica statunitense del nuovo millennio. Un metodo che sembra prescindere dall’apparente orientamento politico, dalla reputazione e dal colore della pelle dei vari presidenti.

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