Vite al limite: Real Time e il dilemma del medical reality

A chi non è mai capitato, durante una seduta di zapping compulsivo, di fermarsi inebetito a guardare Vite al limite, in onda su Real Time il lunedì alle 21:10? Ogni puntata descrive la drammatica storia di una persona obesa, donna o uomo che sia, che, a un passo dalla morte, decide di prendere in mano le redini del proprio destino e di cambiare la sua vita, ormai ridotta al limite. La dieta, da sempre l’incubo peggiore di noi donne, nell’epoca dei consumi ha fagocitato anche gli uomini. A volte ci si rifugia nel porto sicuro del cibo per sfuggire ai fantasmi del passato, perché riempire la credenza della cucina e il frigorifero significa metaforicamente cercare di colmare quel vuoto che si ha dentro, quell’horror vacui che da sempre immobilizza e terrorizza le coscienze. Di fronte all’eventualità di non riuscire più ad alzarsi dal letto, all’impossibilità di camminare, di relazionarsi con il prossimo, di fronte alla morte, scatta qualcosa nella mente umana che porta alla consapevolezza che forse è arrivato il momento di cambiare rotta, di crearsi un’occasione, di ricominciare da zero.

Vite al limiteL’ultima spiaggia per i protagonisti di Vite al limite è quella di sottoporsi ad un intervento chirurgico invasivo, da realizzarsi solo dopo aver intrapreso un percorso verso la guarigione, una dieta ferrea, un esercizio fisico costante, la perdita dei primi chili. Ed è questo il riscatto che i protagonisti di ogni puntata cercano. Il filone dei programmi medical si sta incrementando sempre di più, rendendo necessaria una riflessione. Si pensi al programma di Mtv, Teenager in crisi di peso, dove molti adolescenti americani in sovrappeso si sottopongono e diete drastiche e ad allenamenti estenuanti (quasi olimpionici) per perdere peso ed arrivare magri al college. Alcuni pensano che sia importante parlare dei problemi legati all’alimentazione, per scongiurarli, perché diffonderne in modo capillare la conoscenza forse potrebbe portare all’abbattimento della loro esistenza. Ma è davvero così? Il piatto del reality sul quale viene servito il problema della grave forma di sovrappeso può rivelarsi davvero risolutivo, o piuttosto è foriero di una tuttologia di dubbio gusto e di una eccessiva semplificazione di una malattia come questa?

Il fronte medico risponde in modo parzialmente negativo alla provocazione prodotta dalla cultura da “Bignami pressappochista” del reality . Molti esponenti della medicina sostengono che il problema dell’obesità sia molto complesso da comprendere e da affrontare, e che non possa essere risolto solo con una dieta alimentare associata ad estenuanti allenamenti, ma che sia necessario anche avvalersi di un supporto psicologico in quanto si tratta di una patologia multifattoriale. Pertanto non basta perdere peso per poter essere felici, ma è necessario combattere anche a livello psicologico. Il medical reality può essere un deterrente per impedire la diffusione di uno stile di vita sbagliato, di un disagio esistenziale? In questi momenti di riflessione, come non pensare ad Aristotele e alla sua interpretazione della tragedia umana, intesa come messa in atto del male, esorcizzazione e catarsi dello stesso? La mostruosità è solo un sintomo esteriore o si manifesta dall’interno? Cosa spinge i telespettatori a restare incollati davanti a Vite al limite? Sarà forse la curiosità, il poter toccare le emozioni dolorose, il gusto dell’orrido e del tragico, la filosofia del “mal comune mezzo gaudio”, il sentirsi migliori di fronte alle disgrazie altrui?

Twitter: @Vale_Perucca