Trincee d’inchiostro, lettere dalla Grande Guerra
Stiamo vivendo in un periodo in cui la memoria storica sembra essere svanita. E se questo può essere vero per molti, d’altro canto c’è chi è immerso in una evocazione/rivendicazione del passato continua, con un prospetto del presente piuttosto chiaro e un orientamento al futuro che può apparire delirante. Le guerre sono tutte terribili, scriveva Tiziano Terzani. Ma forse ciò che più incute un sentimento di orrore è la dimenticanza: ogni situazione di belligeranza produce crimini contro l’umanità, ieri e oggi. E oggi più che mai il potere della testimonianza dovrebbe indurre a una riflessione globale e profonda. Trincee d’inchiostro ne è la dimostrazione.
Riproposto da Rai Storia, Trincee d’inchiostro è un documentario che ci allontana da questa fenomenologia dell’oblio. Ripercorrendo le fasi della Grande Guerra, l’attenzione è qui focalizzata sui soldati e soprattutto sulle loro lettere. Sono quattro miliardi le missive inviate durante il conflitto. Gli storici Antonio Gibelli, Bruna Bianchi e Fabio Caffarena spiegano l’importanza che la scrittura rivestiva nella vita di trincea.
Le lettere diventano alimento per l’anima, più del cibo. Quando manca la carta usano la parola carestia, proprio a indicare che ormai si trattava di una necessità primaria. Si scrive perché si ha la convinzione e la consapevolezza di trovarsi davanti a un evento nuovo e si manifesta la volontà di lasciare la traccia del proprio passaggio. La lettera attesta che si è in vita, almeno nel momento in cui si scrive, per questo è una pratica che va rinnovata ogni giorno: “Ogni mattina allo spuntar del sole, prendo la penna in mano per scrivervi”, dichiara un soldato. Ma la guerra è un’illusione generata da un inganno, e c’è chi spera, come Emanuele Calosso, che duri soltanto quaranta giorni come era stato promesso. Come lui, altri giovani ventenni scrivono in modo ossessivo indirizzando le lettere alle loro madri.
Ma chi erano questi italiani? Per la maggioranza contadini che si ritrovavano a vivere in una Babele di dialetti. Il livello di istruzione era basso, circa il 38% di loro era analfabeta e negli altri si riscontravano difficoltà nella scrittura, poiché nei campi non era necessaria ai fini della comunicazione. Uno degli aspetti meno conosciuti della vita in trincea è quello delle punizioni e dei processi, che causarono la morte di 390 soldati. In alcune lettere, scampate alla censura, si può leggere il malcontento: “Se avessi per le mani il capo del governo, o meglio dei briganti, lo strozzerei”. Dopo la disfatta di Caporetto vengono rinchiusi nei campi di prigionia e qui il contenuto delle missive cambia: accanto alla notizia della morte di un amico, si elencano le richieste di alimenti come il pesto o il pane. “Ho sognato come tutte le notti il Pane”, scrive Bonaventura Tecchi. E c’è chi compila un vero e proprio libro di ricette, provando ad alleviare la situazione: l’Arte culinaria di Giuseppe Chioni ne è la prova. C’è anche chi affida la propria memoria non alle lettere “che fanno mangiare”, ma ai diari, come Carlo Salsa il quale, in Trincee. Confidenze di un fante, descrive la loro condizione come se fossero in un mattatoio in attesa di farsi macellare.
Le testimonianze epistolari sono numerose e offrono un’immagine autentica di quanto è accaduto e di come è stata vissuta l’esperienza al fronte. Con le lettere, i soldati riuscivano a ristabilire un rapporto con il quotidiano che appariva come un ricordo lontano. La loro grafomania crebbe al tal punto che, se mancavano la carta e l’inchiostro, improvvisavano con il materiale a loro disposizione. Esemplare il caso di Calosso che, in una lettera del 12 marzo 1916, scrive: “Ho scritto con il sangue ricavato dai pidocchi che ho ucciso”. E qui l’interpretazione resta libera.