Uomini e donne uguali? Non nello stipendio
2 novembre, giorno dei morti? No, o almeno non solo. Da ieri, infatti, il 2 novembre è ufficialmente «il giorno dell’anno in cui le donne in tutta Europa smettono di essere pagate, mentre gli uomini continuano a guadagnare fino al 31 dicembre».
Sembra impossibile, ma è così. Nell’Europa del 2015 il divario tra lo stipendio di donne e uomini è così elevato che, in proporzione, è come se negli ultimi due mesi dell’anno il lavoro femminile fosse completamente volontario. Sì, perché quello scarto del 16,3% – la media europea del “gender pay gap” – tradotto in concreto significa lavorare gratis per ben cinquantanove giorni, da ieri a Capodanno. A parità di ruoli, livelli e formazione. A dirlo è la Commissione Europea, in un comunicato rilasciato in occasione dell’European Equal Pay Day: una donna guadagna 84 centesimi per ogni euro intascato dai colleghi maschi. E la situazione è ancora peggiore nel lungo periodo: se, infatti, «il divario di retribuzione tra donne e uomini è già ingiusto, ingiustificato e inaccettabile nel breve termine», in tutta la carriera di una donna, accumulandosi si traduce in un divario pensionistico ancora più significativo, con pensioni delle donne inferiori del 39% rispetto a quelle degli uomini». L’età, inoltre, influisce negativamente sulla retribuzione: più si invecchia più si allarga la forbice tra gli stipendi.
Questo non perché le donne lavorino meno, perché scelgano (o debbano scegliere) lavori meno retribuiti, e nemmeno perché siano meno istruite. Le donne fanno gli stessi lavori degli uomini, studiano di più – il 60% dei laureati che escono dalle università europee sono donne – ma sono pagate meno. Dietro il divario salariale, dice ancora l’Europa in un’infografica animata, ci sono meno promozioni, meno opportunità. Anche se la discriminazione è sul luogo di lavoro è illegale, purtroppo è ancora una realtà. Le ore in cui le donne si dedicano a lavori non retribuiti – prendersi cura dei figli, degli anziani, della cura della casa – sono più del doppio di quelle degli uomini e spesso le lavoratrici devono allontanarsi dal posto di lavoro «per avere figli o per prendersi cura dei parenti», pause che possono avere un impatto negativo sulla capacità di guadagnare per il resto della carriera. Non è un caso che solo il 4% dei CEO delle top companies siano donne e che anche il Papa – e chi sennò? – abbia sentito la necessità di denunciare il numero troppo alto di donne licenziate perché incinte. Del resto, è di questa settimana la notizia di colloquio di lavoro terminato immediatamente di fronte al rifiuto di rispondere alla domanda: «Sei sposata? Hai figli?».
A guardare i dati diffusi dall’Ue, l’Italia si piazza sorprendentemente in alto nella classifica dei Paesi con il gap più basso d’Europa, solo il 7,3%. Uno schiaffo in faccia alla Germania sempre pronta a dar lezioni, che con il 21,6% scivola nelle retrovie della classifica poche posizioni sopra l’Estonia, che chiude la classifica con un divario che sfiora il 30%. O no? Controllando gli indicatori Istat, Isfol e Banca d’Italia, fa notare Repubblica, emerge come questi numeri non tengano conto della scarsa occupazione femminile del Belpaese, che tocca punte del 50% nel sud. Tenendo conto di questo parametro, l’Italia retrocede con il 20% di gap. E la situazione sembra peggiorare negli anni: nel 2008 il dislivello era del 4,9% e numero delle lavoratrici più basso. Anche a livello globale, però, la situazione non sembra migliorare, o almeno non abbastanza velocemente: il dato europeo in dieci anni è sceso di poco più di un punto percentuale (era il 17,7% nel 2006) e «al ritmo attuale, il divario retributivo di genere è in declino così lentamente che dovremo aspettare altri 70 anni per raggiungere la parità di retribuzione – che non è una generazione, ma due». Le nostre nipoti, forse, avranno lo stesso stipendio degli uomini. Ma possiamo aspettare così tanto: «è il momento di colmare il divario».