Italrugby è tempo di bilanci
L’ottava edizione della Coppa del Mondo di rugby è in corso in Inghilterra e l’Italrugby è ancora in corsa per uno storico posto ai quarti di finale. Mancano due partite e con due vittorie un posto tra le prime otto del mondo sarebbe nostro. Peccato che, come la matematica ci dia ancora speranza, quest’ultima vacilli pesantemente dopo aver visto le prime due partite del girone mondiale. Due match diversi nel risultato ma molto simili nel gioco. Totalmente nullo. Con la Francia si è pensato più a non prenderle che altro e infatti la sconfitta è stata quantomeno accettabile nel punteggio. Contro il Canada invece è arrivata la vittoria ma, se possibile, c’è stato un enorme passo indietro nel non-gioco azzurro. Non sappiamo come andranno le ultime due partite del girone con Irlanda e Romania, ma le previsioni non sono certo rosee e forse alla fine di questo Mondiale, comunque vada, la F.I.R. dovrà tracciare una linea e fare un bilancio.
Sono passati ormai 15 anni dal nostro inserimento nell’elite mondiale del rugby, da quando quel 5 febbraio del 2000 l’Italia di Johnstone esordì al Sei Nazioni battendo la Scozia, ma i progressi sono stati ben pochi. Dopo 16 edizioni sono 5 i Whitewash conquistati dagli azzurri e ben 10 i Cucchiai di legno. Definirci la cenerentola del torneo è riduttivo, dopo 16 partecipazioni, purtroppo, l’obiettivo massimo dell’Italrugby rimane quello di non chiudere all’ultimo posto. Il che è un po’ avvilente. Il tempo delle giustificazioni è finito. Serve una vera rivoluzione. Come giustamente detto da Massimo Giovannelli qualche settimana fa “il problema principale del nostro rugby è che non sa rinnovarsi. Le presidenze federali durano all’infinito e chi comanda ha poteri illimitati”. Il rugby, forse in pochi lo sanno, ha il secondo budget federale dopo il calcio, ben 45 milioni di euro e non riesce a presentare una Nazionale credibile in giro per il mondo. Le accademie federali giovanili che si sostituiscono ai club nella crescita del giovani, non portano risultati evidenti; la continua ricerca di italiani naturalizzati ne è un esempio lampante. Per non parlare dei club federali partecipanti al Pro12, Zebre e Benetton Treviso, che oltre a non portare risultati sul campo, collezionando figuracce in giro per l’Europa, sono un perenne costo per la Federazione. Questo solo per parlare del fattore economico-gestionale. Se poi si passa al campo i risultati parlano da soli e le parole di Giovannelli sono una conferma: “Pensiamo al Sei Nazioni: fosse per i risultati sportivi, saremmo retrocessi da tempo. Non siamo competitivi, non siamo credibili. Basta con gli allenatori che vengono qui in pensione. Non siamo capaci di gestire i cambi generazionali dei giocatori, ogni volta comportano drammi e lacerazioni. Ci si affida ai quattro giocatori più esperti per perdere con uno scarto inferiore ai 40 punti, non si costruisce”. Ma tutto il movimento si nasconde dietro ad un dito. L’interesse nazionale per il rugby è oggettivamente cresciuto, i fondamenti etico-sportivi del rugby sono materia di esportazione per gli altri sport nazionali, addirittura i giocatori sono diventati sex simbol. Il fango, la muscolatura pronunciata e, a volte, anche la famigerata “pancetta” vengono ormai preferiti alle creste, tatuaggi e orecchini. Per non parlare degli stadi sempre pieni per le partite dell’Italia al Sei Nazioni. Ma il solo spettacolo non porta ad una crescita, ci vuole un progetto, ci vogliono i risultati. Continuare a parlare di incassi, di interesse nazionale porta acqua ad un solo al mulino, mentre la nazionale continua a fare figuracce e non c’è uno straccio di giovane che emerga a livello internazionale.
La pozione magica non ce l’ha nessuno ma è lampante che dopo 15 anni i passi indietro/regressi/involuzioni sono maggiori dei progressi. Sembra che il rugby italiano non riesca ad uscire da quella mentalità dilettantistica che ha caratterizzato il movimento nei decenni scorsi. Manca quel salto di qualità verso il professionismo a 360°, partendo dalle istituzioni arrivando al campo da gioco. Ormai in ogni sport si parla di marketing, comunicazione, vivai giovanili, organizzazione e programmazione. Termini ancora un po’ distanti dal rugby italiano.