#ShoutYourAbortion: in USA le donne “gridano” il loro aborto

abortoI tweet hanno iniziato a susseguirsi, uno dopo l’altro, nel fine settimana. Uno, due, tre, in poco tempo sono diventati oltre settantamila. “Non ho mai voluto avere figli. Quindi ho abortito” dice Favianna.“Il mio aborto é stato nel 2007. Non volevo figli allora e non voglio ancora adesso. Sto gestendo il mio benessere” le fa eco Lindy. E le altre: “Il mio aborto é stato nel 2010 e la carriera che ho costruito da allora mi soddisfa e mi rende maggiormente in grado di prendermi cura dei bambini che ho ora”, “Ho avuto un aborto quando mio figlio aveva 4 anni e difendo la mia decisione perché era la migliore per la mia famiglia”. A testa alta, centinaia e centinaia di donne hanno svelato al mondo quello che, di solito, é un segreto inconfessabile che, al massimo, si rivela sussurrando. Di più, l’hanno gridato. L’hashtag #ShoutYourAbortion lanciato da Lindy West per sostenere la Planned Parenthood, cui un disegno di legge della Camera appena approvato taglia i fondi federali per un anno, è diventato ben più di una semplice presa di posizione a favore della multinazionale, accusata di una presunta compravendita di feti umani e anche per questo privata dei fondi, che sono stati destinati ai Centri della Salute, in cui gli aborti non vengono praticati. È diventato una presa di posizione in favore di tutte quelle donne che hanno ricorso – o ricorreranno, o potrebbero ricorrere – all’aborto, perché questo non si trasformi in uno stigma.

 

Gridare il proprio aborto significa rifiutare l’idea che vuole le donne madri per forza, rifiutare l’idea che un aborto si accompagni inevitabilmente al senso di colpa. Che il rimorso sia – per tutte, senza esclusione alcuna – come un’ombra di cui non ci si libera mai, un peso da portare a imperitura memoria. Che l’interruzione di gravidanza richieda un’eterna penitenza. No, non c’é niente di cui giustificarsi. Questo gridano quelle migliaia di tweet arrivati da tutti gli USA, dall’Australia, dal Regno Unito e persino dall’Irlanda, dove l’aborto è ancora illegale. Senza vergogna, senza scuse, senza ipocrisie. Gridarlo al mondo è un modo per dire “non mi dispiace. Non chiederò perdono, non mi prosterò ai vostri piedi implorando un’assoluzione”. Una presa di posizione che, certo, arriva sull’onda della polemica tutta americana dopo l’approvazione del “Defound Planned Parenthood” – su cui Obama ha già dichiarato di voler mettere il veto – ma che sembra anche una risposta a quella che i giornali di casa nostra hanno dipinto come l’ennesima rivoluzione del Papa, ovvero la possibilità per tutti i sacerdoti di assolvere le donne che hanno abortito durante l’anno giubilare. O, più precisamente, di assolvere le donne che si sono pentite di questo “delitto contro la vita e la libertà umana”. Nonostante vogliate convincerci del contrario, c’é chi non ha bisogno di chiedere perdono, perché non ha niente di cui pentirsi: questo è, in estrema sintesi, il messaggio dietro i tweet. Se è vero, infatti, che almeno una donna su tre in media ha interrotto una gravidanza, secondo uno studio americano il 95% non prova alcun rimorso nei tre anni successivi. Né in quelli seguenti, a giudicare dai tweet pubblicati.

 

Certo, non sono mancate le voci contrarie. Dal “disgusto” alle accuse di omicidio, dalle preghiere al lancio di hashtag alternativi (uno su tutti #ShoutYourAdoption, ma anche #ShoutYourMurder e #ShoutYourGenocide) i provita si sono scatenati. Accanto alle loro, però, si sono levate le voci di coloro che pur favorevoli all’aborto, ne condannavano la rivendicazione. Perché un aborto, in fondo, è qualcosa che va tenuto nascosto. In realtà, non c’é stata alcuna “esaltazione” dell’aborto, nessuna “glorificazione” o “celebrazione”, come in molti hanno lamentato. In quei tweet c’é solo la verità, nella sua semplicità. Raccontare significa ricordare che le donne hanno diritto di disporre liberamente del proprio corpo. E “liberamente” significa poter decidere di non volere un figlio senza sentirsi donne a metà. Significa poter vivere in uno Stato che assicuri una interruzione di gravidanza sicura, legale e accessibile a tutte e che non obblighi le donne a emigrare, a mettere a rischio la propria vita affidandosi alle mammane o ai sempre più diffusi kit fai-da-te, facilmente reperibili su internet ma non meno pericolosi.