Immigrazione, l’ Australia paga gli scafisti?
Mentre l’Unione Europea si rivela non troppo unita sulla questione dei migranti e le immagini dei profughi accampati e sgomberati con la violenza dal confine di Ventimiglia ci ricordano che, in fondo, tanto “buonisti” nei confronti dei “clandestini” non siamo, anche in Australia è tornato alla ribalta il tema del controllo dei flussi migratori. Sì, perché il governo di Canberra sembra aver trovato soluzione “creativa” per tenere fuori i migranti indesiderati: pagare gli scafisti perché tornino indietro.
L’accusa, pesantissima, arriva da Giacarta. Secondo un’indagine della polizia indonesiana, infatti, alcuni membri dell’esercito schierato a difesa delle coste australiane avrebbero pagato fior di quattrini (dei contribuenti, ça va sans dire) per convincere i trafficanti di uomini a invertire la rotta e scaricare i sessantacinque richiedenti asilo – provenienti da Tahilandia, Myanmar, Bangladesh e Sri Lanka – sull’Isola di Roti, in territorio indonesiano. Sarebbero stati gli stessi passeggeri a rivelare il dettaglio del pagamento – effettuato da un ufficiale salito a bordo della nave –, secondo quanto affermato da James Lynch, portavoce dell’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite. I sei scafisti, poi, avrebbero confermato alla polizia indonesiana di aver ricevuto 5.000 dollari ciascuno per fare dietrofront. Un’affermazione che il primo ministro Tony Abbot non ha confermato e che, soprattutto, non ha smentito. A un giornalista, infatti, il premier si è limitato a rispondere «I’m not going to get into hypotheticals’», rivendicando l’operato del suo governo nella lotta all’immigrazione clandestina e assicurando che «farà tutto il possibile» perché le cose non cambino. E per far sì che i confini restino impenetrabili, ha affermato con un certo orgoglio, le unità deputate al controllo delle frontiere «sono pronte a ricorrere a metodi creativi». Tipo pagare i criminali che mettono a repentaglio la vita di centinaia di migliaia di persone ogni anno e che, nelle mazzette dei funzionari australiani, potrebbero trovare un incentivo a intensificare il business?
Abbot va fiero della politica migratoria voluta dal suo governo poco più di un anno fa, una politica rigidissima (ed estremamente costosa) che si basa sul controllo delle frontiere e sull’intercettazione delle imbarcazioni da parte dei militari dell’esercito. Senza visto, non c’è modo di entrare nel Paese: i barconi intercettati o vengono scortati fino al porto di partenza o sono dirottati in Papua Nuova Guinea o nell’Isola di Nauru, che ospitano gli «immigration detention centers», i centri di identificazione in cui vengono vagliate le domande di asilo e in cui è possibile, nel caso la richiesta venga approvata, ottenere un permesso di residenza. In molti, anche in Europa, guardano a quello australiano come un modello esportabile anche sulle nostre coste. Dietro il rigore delle leggi di Canberra, però, sembra celarsi ben altro. L’Australia era finita nel mirino a causa delle sue politiche migratorie solo pochi mesi fa, quando l’ONU l’aveva accusata addirittura di violare la Convenzione internazionale contro la tortura a causa del trattamento riservato ai profughi, soprattutto ai bambini. «The government of Australia, by failing to provide adequate detention conditions; end the practice of detention of children; and put a stop to the escalating violence and tension at the regional processing centre, has violated the right of the asylum seekers including children to be free from torture or cruel, inhuman or degrading treatment».
Violenze, torture, umiliazioni, degrado. Quella dei campi – «fosse della misera umana», come li ha definiti la BBC – è una realtà ancora troppo nascosta, su cui spesso è difficile far luce. Una realtà che, seppur lontana 17.000 chilometri, ricorda troppo da vicino quella dei nostri CIE, i campi dell’orrore le cui condizioni disumane sono state denunciate a più riprese, purtroppo senza alcun effetto. Non sembra contare il Paese, quindi, né l’emisfero. Nei confronti dei migranti sembra esserci sempre la stessa chiusura. Sembra esserci, in fondo, la stessa paura. «In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere» – ha spiegato con una chiarezza senza pari il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman a Repubblica – «Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro».