World Press Photo 2015 al museo di Roma in Trastevere
Da più di mezzo secolo, World Press Photo, è l’organizzazione del più grande e più prestigioso concorso di fotogiornalismo del mondo; ogni anno ad Amsterdam una giuria indipendente, costituita da esperti internazionali, si riunisce per esaminare con rigore e imparzialità le numerose immagini inviate da riviste, agenzie, quotidiani e freelance di ogni zona del pianeta. Nel 2014 i giurati hanno trascorso due settimane intere nella capitale olandese valutando attentamente ogni proposta (97.912) prima di assegnare i 45 premi suddivisi in 8 categorie a tema a ben 41 fotografi di 17 diverse nazionalità. Sarebbe stato bello assistere a quel lungo e faticoso processo e ascoltare gli umori di ogni giurato, le impressioni incrociate, i cenni d’intesa e le esclamazioni che hanno preceduto ogni scelta; vederli mentre si addentravano uno di fronte all’altro – come riporta il presidente Michele McNally direttore della fotografia del New York Times – «in discussioni assolutamente ragionate, civili e di alto profilo».
Terminata la cerimonia di premiazione ad Oude Kerk gli scatti vincitori vengono raggruppati per una mostra itinerante che coinvolge una quarantina di paese e più di un milione di visitatori. Fino al 22 maggio 2015 presso il Museo di Roma in Trastevere sarà possibile visitare la mostra World Press Photo 2015. L’esposizione è una sorta di taccuino iconografico; un percorso breve che ci consente di soffermarsi sugli eventi che hanno segnato il 2014: dai conflitti in Ucraina e a Gaza, alla dissoluzione della primavera araba fino alla minacciosa epidemia di Ebola. Dopo un primo giro la nostra mente è spaesata; passare dal corridoio dove una concitata sequenza di immagini fissa per sempre, con orrore, le scene di un’impiccagione in Iran alla sezione dedicata allo sport in cui Messi osserva inebetito la coppa del mondo dopo aver perduto la finale contro la Germania pare addirittura sacrilego. In seguito, superato ogni superfluo moralismo, seppure carico di contraddizioni finiamo per accettare il mosaico variegato e cangiante del nostro universo. Oltre ad essere una preziosa fonte d’informazione e d’ispirazione la mostra insegna una cosa fondamentale che spesso rinchiusi nel guscio ordinario ed ottuso della nostra vita dimentichiamo; tutto è interconnesso sebbene per comodità e pigrizia l’uomo continui a suddividerlo in compartimenti stagni. Il rugbista che con tre dita ferma la palla, il gruppo di sciatori che sorpreso dall’alto somiglia alla coda di un pavone, l’inquinamento in Cina, i volti di persone condannate per reati sessuali, la policromia di un barcone di migranti, il cadavere del passeggero del volo della Mlaysia Airlines MH17 legato ancora al sedile in un campo di grano, il minuscolo anfipode che vive sul fondo di uno stagno; ogni cosa appartiene alla stessa ed indissolubile realtà. È la grande lezione di questa successione di attimi rubati alla storia.
Di fronte alle immagini di Julie Baird poi, catturate dalla fotografa Darcy Padilla, ogni indifferenza crolla; a commuovere non è la vita tragica di una donna segnata dal destino ma l’umanità che sopravvive nonostante l’accanimento di quest’ultimo. Il volto di Julie prosciugato dal virus del’HIV è una sporgenza; il residuo esistenziale di un corpo afferrato dalla morte.
La foto dell’anno invece è di Mads Nissen; celebra la sensualità nello spazio intimo di una stanza. Esalta il chiaroscuro dell’eros; il trasporto di chi riceve una carezza e lo sguardo delicatamente compiaciuto di chi la compie. Le pieghe immobili di una tenda tagliano la scultorea orizzontalità di due corpi che si amano; sembra la scena di un film. Siamo dentro l’appartamento a San Pietroburgo; loro sono Jon e Alex ed incarnano l’universalità dell’amore. Nel contemplarli ogni insulsa discriminazione fa il suo ritorno nel regno dell’inutile.