Germanwings, l’odio e gli sciacalli
Una delle regole non scritte del vivere civile vorrebbe che davanti ai morti si rimanesse in silenzio. Da tempo ci siamo abituati a vederla infranta e la tragedia del volo della Germanwings non ha fatto eccezione. Certo, era impossibile che una strage di queste dimensioni, con tutti i dubbi che lascia aperti, non scatenasse un dibattito. Nell’ultima settimana, però, di fronte ai corpi ancora caldi delle 150 vittime, sui giornali e sui social si sono scatenati i complottisti e gli arrabbiati da tastiera, pronti a vomitare teorie “alternative”, livore e offese.
Sono bastati pochi minuti, giusto il tempo che la notizia si diffondesse sui social, perché in molti corressero a emettere la sentenza: Isis. I tagliagole erano arrivati nel cuore dell’Europa, si mormorava su Twitter, mentre la parola “attentato” iniziava a diffondersi e i politici nostrani erano già pronti a saltare sul carro dell’islamofobia per raggranellare voti (impagabile la Santanché con il suo tweet sugli autobus volanti). La drammatica ricostruzione dello schianto e la responsabilità del copilota “pazzo” hanno messo a tacere i rumors su un attacco dello Stato Islamico – non tutti, per la verità – ma la versione della Procura francese, basata su una delle due scatole nere, non ha convinto i complottisti, corsi a svelare l’ennesima false flag diffusa dai media. C’è chi trova sospetta la presenza «di tre capi di Stato sul luogo dell’incidente», chi sa senza dubbio alcuno che Lubitz non è che un capro espiatorio per le colpe della Lufthansa, chi si appella alle immancabili scie chimiche, chi vede nel tragitto dell’aereo un collegamento fin troppo evidente con il gruppo Airbus, franco-tedesco-spagnolo, e chi afferma spavaldo “il copilota è stato sostituito, il suo corpo è stato trovato nella sua macchina a Barcellona”. A poche ore dallo schianto, però, ben più pericolosi dei dietrologi di mezzo mondo sono arrivati gli sciacalli, pronti a speculare anche su una tragedia come quella che si è consumata sulle Alpi Francesi.
Se l’identikit del co-pilota – tedesco-bianco-cattolico – ha tolto armi ai leader razzisti e xenofobi, c’è comunque chi ha sfruttato la vicenda per bieco tornaconto elettorale. «Un uomo solo al comando. #FermiamoRenzie» è il titolo del post pubblicato dal Blog di Grillo in cui, dopo un fotomontaggio che ritrae Renzi alla guida di un aereo Germanwings mentre si scatta un selfie, vengono evidenziate le «inquietanti analogie» tra Andrea Lubitz e il presidente del Consiglio. Quali? Entrambi sono uomini soli al comando, ma mentre il primo ha provocato la morte di 150 persone ignare, il secondo sta per portare allo schianto un’intera nazione senza che nessuno se ne accorga. Sfruttare un dramma appena consumatosi per applicarlo alle tristi logiche dello scontro politico di casa nostra è un’operazione che si commenta da sola. Del resto Grillo non è nuovo agli accostamenti provocatori e inopportuni, basti pensare all’immagine “P2 Macht Frei”. Il comico, però, in questa occasione è arrivato secondo nella gara del cattivo gusto. A calpestare per primo il dolore delle vittime e delle loro famiglie, infatti, è stato «Il Giornale», e per un obiettivo molto più ambizioso: vendicare l’italico onore. Invece che attaccare Renzi, Sallusti ha scelto di colpire la Germania brutta e cattiva, con il titolo «Schettinen» che voleva essere una rivalsa sull’articolo pubblicato dal Der Spiegel all’indomani del naufragio della Costia Concordia. Un articolo che grazie alla traduzione errata di Repubblica e Libero è stato – ed è tuttora interpretato – come un attacco all’italianità. La missione del Giornale, portata avanti in diversi articoli che ironizzano su «l’efficenza (sic) teutonica sempre sbattuta in faccia ai popoli mediterranei», è una e una sola: dimostrare che l’Italia è meglio della Germania. Il messaggio non è nemmeno tanto celato, e appare chiaro nella chiusa di uno dei pezzi: «meno autocritici e autolesionisti degli italiani, i tedeschi si limitano a spargere rassicurazioni ignorando, o facendo finta di non capire la gravità dell’accaduto. Poche ore dopo invece la stessa Lufthansa smentiva il proprio Ad, annunciando l’adozione di nuove regole che prevedono la presenza di due persone nel cockpit. Alitalia l’aveva già fatto 24 ore prima».
Il sentimento antitedesco del Giornale, del resto, sembra essere ampiamente condiviso nel comune sentire. Non solo sui giornali – nelle cui pagine la Germania, «il Paese che da sempre si sente superiore» ma che «dovrebbe smetterla di guardare dall’alto in basso», «si lecca le ferite» e appare come un mito crollato, «incapace di autocritica», «non perfetta» – ma anche sui social su cui, mentre si sprecano le battute sui tedeschi «poracci» che «non sanno riconoscere i pazzi», l’incidente dell’Airbus 320 ha scatenato i commentatori ancora feriti dall’articolo – frainteso – della rivista tedesca, che sposano all’unanimità il punto di vista di Sallusti all’insegna del “l’hanno detto prima loro” e “così la prossima volta imparano”. Tiè.
Tanto livore nel confronti della Germania si nota solo da parte degli italiani (le chiavi di ricerca “#germanwings Germany” o “germanwings Allemagne”, ad esempio, non producono risultati di questo tipo, ma aggiornamenti sulle news e tweet di cordoglio), sarà per un odio atavico, per un antico sentimento di inferiorità, per quel sapore di rivalsa che siamo riusciti a prenderci solo sui campi da calcio o per l’imposizione dell’austerity. Ognuno, però, ha i suoi nemici e se il Belpaese se la prende con la patria del responsabile della strage, i commenti peggiori arrivano dalla Spagna, in cui in tanti si sfogano sulle vittime e gioiscono per la morte dei viaggiatori catalani. «Speriamo che siano catalani tutti i morti nell’incidente aereo», «42 catalani in meno», «Se i passeggeri erano tutti tedeschi e catalani dove sta la tragedia?», «Aereo pieno di catalani e tedeschi che si schianta in Francia #winwinwin», «Non facciamo drammi, in fondo erano catalani, non persone» sono solo alcuni delle centinaia di tweet diffusi nelle ore dopo l’incidente su cui il Mossos d’Esquadra ha aperto un’inchiesta per crimini d’odio, arrestando i responsabili di alcune delle frasi incriminate. Difficilmente, però, basterà un’inchiesta o qualche manetta per spezzare il filo dell’odio che corre sul web e che è costantemente sotto i nostri occhi, dal dibattito politico agli scontri tra tifoserie, e che non si ferma nemmeno di fronte alla morte. Una rabbia che si sfoga dietro un monitor e una tastiera e che sembra non avere freni né argini, alimentata da antiche divisioni e da nuovi risentimenti.