#BoycottDolceGabbana: ecco gli Stati che lo fanno davvero
Al grido di #BoycottDolceGabbana si infiammano gli animi in lotta per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali. La tanto discussa intervista rilasciata dai due stilisti a Panorama mette perfettamente in luce lo straniamento che la cultura dominante ha generato, al punto da far credere agli omosessuali stessi che sia giusto e naturale che certi diritti restino a loro preclusi. Le parole di Domenico Dolce sono inquivocabili: «Non abbiamo inventato mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo i figli della chimica, i bambini sintetici (…) Procreare dovrebbe essere un atto d’amore». Dunque anche le coppie eterosessuali che non riescono ad avere figli, a rigor di logica, dovrebbero rinunciare? Dunque solo l’atto sessuale è un atto d’amore, mentre non lo sono le interminabili attese e le burocrazie accettate con gioia pur di avere un bambino? E ancora Dolce: «Sono gay, non posso avere un figlio. Credo che non si possa avere tutto dalla vita, se non c’è vuol dire che non ci deve essere. È anche bello privarsi di qualcosa. La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate». Allora anche il cuore deve seguire il suo percorso naturale, e se si ferma chi siamo noi per inserire un peacemaker?
L’intervista a Dolce e Gabbana avviene in concomitanza a un’altra questione che fa discutere e che riguarda il colosso Ikea. L’azienda svedese, per non incorrere in guai col Cremlino, ha deciso di chiudere l’edizione russa della sua rivista online Ikea Family Live. Il magazine, pubblicato in 25 Paesi con i medesimi contenuti, mostra i vari aspetti della vita casalinga senza distinzioni di età, genere, orientamento sessuale o religioso e piuttosto che differenziare i contenuti in ottemperanza alla legge russa, che vieta di “promuovere rapporti sessuali non tradizionali” tra minorenni, ha deciso di sopprimerne l’edizione.
Questi fatti di cronaca sono in controtendenza rispetto a quello che, stavolta è il caso di dirlo, ci chiede l’Europa. Questo 12 marzo l’Europarlamento ha votato, con oltre 390 sì, in favore del riconoscimento delle unioni civili e del matrimonio tra persone dello stesso sesso, considerandole un inalienabile diritto umano. L’indicazione di tutela di questo diritto va recepita e normatizzata dai Paesi membri, e l’Italia è tra quelli che devono ancora lavorarci. Il primo Paese a fare il grande passo è stata la Danimarca, che 25 anni or sono ha registrato la prima unione fino ad approdare all’approvazione dei matrimoni veri e propri nel 2011. Gli altri Stati virtuosi che hanno già pronunicato il sì ai matrimoni gay sono l’Olanda (2001), il Belgio (2003), il Canada e la Spagna (2005), il Sudafrica (2006), l’unico Stato africano a legalizzare le unioni civili, la Svezia e la Norvegia (2009), l’Islanda (2010), dove è stata la stessa primo ministro Jóhanna Sigurðardóttir ad aprire le danze sposando la sua compagna. E poi, sempre nel 2010, il Portogallo, seguito da Argentina (2010), Francia, Brasile, Nuova Zelanda e Uruguay (2013), per finire con Inghilterra, Galles e Lussemburgo e Malta (2014). In Messico si possono contrarre matrimoni tra persone dello stesso sesso solo nella capitale, negli Usa nella capitale e in 38 Stati. Più delicata la questione delle adozioni, a cui hanno accesso coppie dello stesso sesso in 21 Paesi. L’Italia è fuori da entrambe le liste, ancora in attesa di una legge almeno sulle unioni civili, che Renzi ha assicurato arriverà al massimo entro l’estate. Un ritardo enorme che però, a giudicare dai commenti alla vicenda Dolce&Gabbana, trova comunque i più ancora restii e impreparati.