Sono italiano e mi unisco all’Isis
È l’odio per l’Occidente, avvertito come un mix di forza, amoralità e capitalismo, più che la devozione ad Allah, a fare da collante a quella variegata umanità che ingrossa le fila dell’esercito dello Stato Islamico. Non può essere altrimenti: è il disgusto per quell’idea di Occidente il minimo comun denominatore tra persone che vengono da Paesi e culture tanto diversi. L’idea, infatti, del terrorista mediorientale e musulmano tout court quale identikit del jihadista è limitante per un’armata che conta un numero altissimo di foreign fighters (secondo le stime, seppur passibili di consistenti marigini di errore, sarebbero circa 12 mila). In un momento di altissima allerta terrorismo accontentarsi di questo stereotipo sarebbe un errore fatale.
Il presidente del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, ha rivelato, in un’intervista al quotidiano “al Hayat”, che un cittadino italiano è stato arrestato alcuni mesi fa ad Erbil perché sospettato di volersi arruolare nell’Isis. L’uomo, ha detto Barzani, era entrato in territorio iracheno attraverso la Turchia con documenti regolari. La notizia è stata confermata dall’amabasciatore italiano a Baghdad, Massimo Marotti, che ha chiarito che l’episodio risale a qualche mese fa e che la persona fermata è costantemente assistita dalle autorità locali. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha confermato dichiarando di aver ricevuto queste informazioni solo lo scorso lunedì. L’italiano arrestato a Erbil si chiama Giampiero e ha 35 anni. D’orgine calabrese, si era trasferito come studente a Bologna e lì ha iniziato a frequentare circoli islamici. Più che un lucido jihadista appare una persona affetta di disturbi psichici, che non ha mai fatto mistero di volersi unire al Califfato, inneggiando a esso sui social network al grido di “a morte l’Occidente”. Che cosa l’abbia spinto a cercare risposta alla sua frustrazione e insoddisfazione nella jihad, è la domanda da porsi. E che cosa ha spinto gli altri circa cinquanta italiani, e tutta quell’altra schiera di europei, a dichiarare guerra all’Occidente e ad abbracciare la missione dell’Isis. Qualcuno era un muratore, qualcuno un commerciante, uno un barbiere e un altro uno studente modello, e poi si sono auto-catapultati in Siria e in Libia, dove gli orrori della guerra hanno fatto il resto, segnandoli tanto da portare a termine la trasformazione in terroristi.
Il fenomeno dei cittadini europei che diventano attori nel teatro della jihad non è nuovo. Presenze europee sono già state documentate sui campi di battaglia dell’Afghanistan negli anni Ottanta, come anche in Iraq e in Somalia. I foreign fighters sono numerosi e diversi tra loro, tanto che è difficile individurali e capirne azioni e motivazioni. Secondo il Foreign Policy Research Institute (FPRI) quello che distingue i combattenti di Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa che ritornano in patria da quelli europei è che i primi sono alla ricerca del potere politico mentre gli europei sono più orientati a condurre atti violenti in nome di una causa ideologica. Quali che siano le motivazioni profonde che spingono migliaia di uomini a mettere a rischio la loro esistenza per combattere una guerra, la radice è sempre avvelenata di rabbiosa rivendicazione, sia essa di natura politica, culturale o economica. Mai puramente religiosa, quella è la motivazione di facciata. Laddove la religione non è l’oppio dei popoli ne è però il capro espiatorio, grazie a cui l’odio trova legittimazione e si trasforma alchemicamente in giustizia divina.