Utero in affitto: Strasburgo condanna l’Italia

utero_affittoArriva dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la sentenza che condanna l’Italia per aver violato il diritto di una coppia sposata a poter riconoscere come proprio figlio un bambino nato in Russia da madre surrogata.

La vicenda è quella di una coppia di Colletorto (CB) che, dopo aver inutilmente tentato la fecondazione in vitro con i propri gameti in Italia, decise di recarsi in Russia e ricorrere alla pratica dell’utero in affitto, legale in quel Paese. Il bambino, nato nel febbraio 2011, era poi stato iscritto all’anagrafe di Mosca come figlio legittimo dei coniugi. Una volta che la coppia rientrò in Italia procedette a richiedere la trascrizione dell’atto di nascita all’anagrafe del proprio comune di residenza che però, purtroppo, venne rifiutata. Le autorità preposte, infatti, ritennero che la documentazione presentata dalla coppia contenesse dati falsi soprattutto per quel che riguardava la vera identità dei genitori. Iniziò, a quel punto, la trafila giudiziaria che portò a stabilire, anche attraverso un test del Dna, l’assoluta assenza di legame biologico tra padre e figlio. Così il piccolo venne sottratto alla coppia, dichiarato in stato di abbandono e affidato ai servizi sociali. I giudici italiani stabilirono, inoltre, che la coppia non avrebbe potuto avere, da quel momento in poi, alcun contatto con il bambino né farne richiesta di adozione.

La coppia decise poi di ricorrere alla Corte di Strasburgo denunciando, nello specifico, la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Qualche giorno fa la Corte che si è pronunciata dichiarando che la coppia molisana ha subito la violazione del diritto al rispetto della vita familiare e privata, e che la sentenza sulla coppia non riguarda la questione delle madri surrogate, ma la decisione dei tribunali italiani di allontanare il bambino e affidarlo ai servizi sociali. La sentenza, infatti, recita “ la violazione subita dai coniugi non deve essere intesa come un obbligo dello Stato italiano a restituire il bambino alla coppia”, in quanto “il piccolo ha indubbiamente sviluppato dei legami emotivi con la famiglia d’accoglienza con cui vive dal 2013”. L’unico obbligo per l’Italia è quello di risarcire i coniugi con ventimila euro per danni morali e diecimila euro a copertura delle spese legali sostenute.

Non è la prima volta che la questione delle maternità surrogate costituisce oggetto di sentenze. Proprio lo scorso mese di novembre la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di una coppia di Brescia che aveva avuto un figlio ricorrendo alla pratica della maternità sostitutiva in Ucraina e poi se lo vide sottrarre da un tribunale italiano. I giudici della Cassazione avevano deciso di fermare la pratica di ricorrere all’utero in affitto all’estero. Per effetto di questa decisione il ragazzino, nato nel 2011, è stato dato in adozione.

Il problema dell’infertilità, purtroppo oggi affligge milioni di coppie in tutta Italia e sono molti coloro che spinti dalla disperazione cercano alternative al metodo della fecondazione naturale e che spesso decidono di recarsi all’estero per sottoporsi a pratiche non ammesse in Italia come quella della maternità surrogata. Sicuramente questa sentenza che obbliga lo stato a risarcire i coniugi molisani costituirà un precedente importante e non trascurabile. Una decisione, quella che giunge dalla Corte dei diritti umani che comporta una serie di problematiche non indifferenti stando a quanto sottolineato in un’intervista alla Radio Vaticana da Alberto Gambino, direttore del Dipartimento di Scienze Umane presso l’Università Europea di Roma, che definisce la pratica dell’utero in affitto come “un contratto che si fa con una donna, la quale porterà nel suo grembo un bambino che poi all’atto della nascita verrà in realtà dato ad un’altra coppia” e prosegue argomentando “non è un tema teorico, ma è un tema molto concreto, fatto di contratti e ovviamente fra i contratti c’è dietro anche un pagamento che cozza decisamente con la dignità della donna, la dignità anche del nascituro e in particolare la concezione di famiglia civile che c’è all’interno del nostro ordinamento civilistico”.

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