Le categorie professionali soggette al divieto del cd. patto di quota lite

Con la sentenza n. 20839/14, la Suprema Corte si è espressa circa il divieto del patto di quota lite. Il predetto divieto, così  come già previsto dal Codice civile, reintrodotto a seguito dell’entrata in vigore  dalla riforma dell’ordinamento forense, può essere riferito solo a chi svolge un’attività difensiva. Risulta, pertanto, escluso il consulente del lavoro il quale non svolge di certo un’attività di assistenza e rappresentanza in giudizio ma, con la sua opera professionale, punta a ottenere un risparmio per la società sua cliente.

Con il patto di quota lite l’avvocato o il professionista percepisce quale compenso una quota del bene oggetto della prestazione professionale. Il divieto era prima previsto dal Codice civile per poi essere rivisto dall’allora ministro Pier Luigi Bersani e infine reintrodotto dal nuovo ordinamento forense.

Il caso di specie affrontato dalla Corte riguardava un consulente del lavoro, il quale veniva contattato da una società al fine di individuare soluzioni giuridiche che permettessero di godere di determinate agevolazioni fiscali previste per le aziende operanti nel mezzogiorno d’Italia, quali, a titolo esemplificativo, lo sgravio degli oneri sociali sui contributi Inps.

Per tale attività veniva determinato un compenso del 25% dei contributi già pagati e recuperati. Quando, però, venivano ottenute le agevolazioni, la società conveniva in giudizio il consulente al fine di ottenere l’annullamento del contratto di prestazione d’opera professionale, deducendo il divieto del patto di quota lite.

Sia i giudici di primo grado che dell’appello avevano negato il compenso, così come determinato nel predetto patto, al consulente.

Con la Sentenza in oggetto però, la Cassazione, ribalta i verdetti e precisa che il divieto, anche nella vecchia versione del Codice civile, è riferito solo al professionista che svolge attività difensiva. In tale categoria non rientra solo l’avvocato, ma anche il dottore commercialista, il ragioniere e il consulente, solo ove questi ultimi svolgano attività di patrocinio davanti alle commissioni tributarie.

La prestazione svolta dal consulente del lavoro, dunque, non rientrava certo nell’attività di assistenza e di rappresentanza in giudizio della società, ma piuttosto in un impegno a ottenere dall’Inps il riconoscimento in via amministrativo-contabile del diritto della società a ottenere lo sgravio.