Il Brasile ha vinto la finale
Dopo la corsa sul filo del rasoio, testa a testa contro gli avversari, e i moltissimi sondaggi che paventavano una sua sconfitta, Dilma Roussef vince le elezioni presidenziali del Brasile al ballottaggio, e il Partito dei Lavoratori mantiene la maggioranza.
L’avanzata della destra è stata fermata, e il candidato del Partito della socialdemocrazia brasiliana (Psdb) Aecio Neves è stato sconfitto, ma di misura. Le cifre sono le più risicate della storia recente brasiliana: 51,64% ai socialisti 48,36% ai conservatori. Specchio di un paese spaccato in due, sospeso tra poli quanto mai distanti: la socialdemocrazia progressista di matrice socialista da un lato e il conservatorismo neoliberista dall’altro.
Naturalmente i giornali di destra hanno subito enfatizzato il dato: sebbene il Psdb esca sconfitto per la quarta volta consecutiva dal confronto con il Pt, questa volta l’ha quasi afferrato. Nel 2006 Lula vinse con 20 punti percentuali di distacco, e la stessa Dilma, nel ballottaggio del 2010, ha staccato José Serra di 12 punti. L’altro ieri il distacco si è ridotto drasticamente, e dall’area neoliberista il paese viene presentato come diviso e frammentato, tentando di fare pressione sul Pt per l’assunzione di provvedimenti più vicini agli interessi del mercato.
Mercato che non ha tardato a “vendicarsi” di questo ennesimo smacco: dopo la vittoria della Roussef, infatti, le azioni della compagnia petrolifera di stato, la Petrobas, sono scese al punto più basso degli ultimi sette mesi.
Dunque questo è quanto: Dilma Roussef, Lula e il Partito dei Lavoratori si trovano di fronte al mandato più difficile della loro storia, perché nonostante gli accenti della destra il paese è realmente diviso a metà, ed è facile immaginare lo spaccato sociale di riferimento di questi due grandi schieramenti. L’opposizione alla ventata socialdemocratica si è rafforzata nei “centri di comando” e nelle zone più ricche del paese: a partire da Brasilia e Rio Grande do Sul, quinto collegio elettorale del paese da sempre storica roccaforte della sinistra, la cui capitale, Porto Alegre, è stata conquistata da una coalizione di forze conservatrici con candidato José Ivo Sartori, del Pmdb, che ha ottenuto il 61,21%. La classe media ha vacillato, in larga parte allontanandosi dal Pt, e ora chiede maggiore attenzione. Il Pt ha vinto invece nelle zone più povere del paese, mantenuto alcuni grandi centri ed espugnato il secondo stato più popoloso del Brasile, Minas Gerais, da sempre un feudo della destra e in particolare di Neves.
Ma mantenere le promesse questa volta non sarà facile, perché i movimenti che hanno appoggiato e concretizzato la vittoria di Dilma chiedono cambiamenti reali e tangibili, che, se messi in atto, cambierebbero radicalmente il volto del Brasile. Primo tra tutti il referendum per un’Assemblea costituente che muti la natura del sistema elettorale e dia maggior risalto alla partecipazione popolare. E ancora, quella stessa piazza che ha manifestato durante i mondiali di calcio, reclama a gran voce riforme strutturali contro la diseguaglianza e la povertà, perché se è vero che tanti passi in questo senso sono stati fatti in passato, resta fuor di dubbio che c’è ancora molta strada da fare.
Inoltre Dilma Roussef ha accolto durante la campagna elettorale le proposte presentate dal Movimento senza Terra e dalle altre organizzazioni sociali; ha garantito una redistribuzione della rendita petrolifera verso educazione e sanità pubblica e promesso un rafforzamento dei piani sociali per i ceti popolari: scelte senza dubbio in grado di costruire un Brasile migliore, ma a cui non sarà facile far fede.
Perché? Perché dall’altra parte ci sono i mercati, e le destre che reclamano anche loro un cambiamento, ma nel senso che vorrebbero il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Ecco dunque il Brasile – che con i suoi 200 milioni di abitanti è senza dubbio uno, se non il paese più forte dell’America Latina – che da una parte guarda ai ceti popolari, e all'”alleanza” con la parte più rossa dell’America Latina stretta politicamente nell’ALBA ed economicamente nel Mercosur (il blocco commerciale di cui fa parte il Brasile, con Venezuela, Argentina, Uruguay e Paraguay e che esige il consenso degli altri membri per eventuali negoziati esterni); e dall’altra, senza troppe esagerazioni, è messo con le spalle a muro dall’opposizione interna, dagli Stati Uniti e dagli interessi di quell’altra metà del pianeta che sull’indigenza e la prostrazione del sud del mondo ha costruito le sue fortune. Staranno a guardare?
Noi sappiamo già quale sia la parte giusta, e guarderemo con speranza, ma siamo consapevoli che però, in questo mondo, i giustinon sempre ce la fanno.
Approfindimenti:
Sito dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA) e articolo sulle elezioni in Brasile e Uruguay.
Che cos’è il Mercosur