Mariano-RajoyCome diceva qualcuno un po’ di anni fa, «si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio». E nello specifico, nel campo delle ricette economiche a livello europeo di cattivi esempi e di male lingue c’è veramente l’imbarazzo della scelta. Un esempio? La Spagna.
La storia sembra già vista. Ricordate Zapatero? Il suo periodo era identificato con un nome più che chiaro, “miracolo”. Grandi opere, roboanti progetti, un’economia che pareva espandersi senza freni, il più basso tasso di disoccupazione di tutti i paesi democratici con l’8% toccato a fine 2007, facevano della penisola iberica uno dei traini dell’Europa nonché un sogno per chi solo pochi decenni prima viveva sotto dittatura. Poi la famosa bolla immobiliare – e la crisi della finanza mondiale – avevano distrutto una terra che pareva inarrestabilmente proiettata verso le vette del pianeta. Il fenomeno, tuttavia, pare ripetersi.

Il crollo del Socialismo e di Zapatero, con la larga vittoria di Rajoy e il passaggio “a destra” con il PP quale partito più votato, ha inflitto un duro cambio alle politiche economiche del paese. Sia chiaro: la Spagna ha pagato a duro prezzo il “vivere sopra le proprie possibilità” ma anche, secondo economisti come Stiglitz, le idee europee legate a doppio filo, forte e stretto, con l’austerity. Nel 2009 la Spagna – così come l’Irlanda – aveva un bilancio pubblico in avanzo, non sprecava risorse, aveva un basso rapporto tra deficit e Pil (mai come in questi giorni sulla bocca di tutti). Adesso, i conti stanno tornando più o meno a posto, anche grazie a ripetute manovre considerate da diversi giornali non propriamente anarchici o di matrice black bloc – come l’Economist – più coraggiose rispetto a quelle intraprese, per esempio, dall’Italia.
D’altronde, un Pil in crescita (previsto il segno + per il 2015) e 400mila posti di lavoro nuovi creati, paiono dare messaggi realmente positivi e incoraggianti.

Ma sarà veramente così? Analizzando con più cautela le condizioni, si eviterebbero inutili trenini e sbandieramenti inopportuni. Tanto per cominciare, la Spagna ha perso molto più dell’Italia nella crisi e, tutt’oggi, i dati sulla disoccupazione ci vedono “più fortunati” (eufemismo) con un 12% contro il 26% dei cugini iberici. In seconda battuta, c’è da notare la tipologia dei lavori offerti. La Spagna ha infatti fortemente agito sui contratti lavorativi, favorendo più occupazione ma con tipologie molto più flessibili, con part-time, contratti a progetto e a tempo determinato che tuttavia, nei calcoli occupazionali, vengono valutati come il cosiddetto posto fisso.
Quindi, come detto, non tutto oro è ciò che luccica. Occorrerebbe per esempio, informare gran parte di coloro che nell’opinione pubblica o nel Parlamento sostengono riforme come quelle affrontate dal Governo di Rajoy, del parere di un ente religioso: la Caritas. Perché? È chiaro: una moltitudine di quelli che apprestano a strapparsi le vesti per il cosiddetto Jobs Act – che rischia di contenere una grande precarizzazione del mercato di lavoro, magari sul modello spagnolo – è di matrice chiaramente cattolica. E la Caritas, per dire, ha ritenuto il Governo iberico «non all’altezza delle aspettative – e ancora, reo di – escludere sempre di più le persone già escluse».
Insomma, ¡que viva Espana! D’altronde si sa: i cattivi esempi, si imitano facilmente.

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@MauroAgatone

 

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