Hamlet, il rumore di Baracco all’Argentina
Dopo il debutto mancato nella scorsa stagione, l’Hamlet di Andrea Baracco è scivolato nell’autunno del 2014 sul palco dell’Argentina per tre serate in anteprima nazionale, arricchito del sostegno del Romaeuropa Festival e inserito nel ciclo shakespeariano del Teatro di Roma. Dieci attori occupano la scena, coprendo tutte le parti del dramma, anche quelle minori. A ridisegnare lo spazio in via di definizione, una serie di pannelli semi trasparenti che occultano, accompagnano e materialmente impegnano i personaggi, oltre a ospitare i contributi video di Luca Brinchi e Roberta Zanardo, proseguendo quel filone interattivo e multimediale che negli ultimi anni sta dimostrando al teatro grande vitalità. La scena ad esempio, in cui lo spettro del re si mostra per la prima volta al figlio Amleto – la voce è di Gabriele Lavia – mentre sugli sfondi si disegnano alberi che ondeggiano al vento, raccoglie l’emotività di un dialogo impossibile tra vivi e morti, tra sofferenze umane e ultraterrene.
Il testo, curato da Francesca Macrì, si presenta sfoltito di alcuni episodi non determinanti, come quello del re di Norvegia o della performance metateatrale, che portano lo spettacolo alla durata complessiva di 2 ore e 15 minuti. Ma il tempo rimane un parametro del tutto relativo, che dipende solo dalla densità con la quale viene abitato, nella vita come in teatro. In questo caso, le variabili spazio-tempo sono affrontate senza strategie di fluidità. Questo Hamlet è una gabbia di anime infelici e disperate, coperte dal suono delle loro stesse urla, delle armi o di una montagna russa. E così il rumore, accompagnato da una tenebra angosciosa e nera come i vestiti degli attori, sovrasta in modo assordante ogni umano sentimento, fino a disperderlo nel nulla. L’emotività a cui si accennava prima, è sostituita da un’aggressività estrema, verbale ma anche pratica.
La regia di Baracco comincia ad assumere contorni stabili. Essa acquista maggiore senso se posta in relazione con quella del Giulio Cesare che da ultimo ha soggiornato al Teatro Vascello all’inizio di quest’anno. La stessa violenza, la stessa angoscia sconfinata per un’operazione ricca di espedienti simbolici vagamente rimaneggiati nel caso dell’Amleto. Lì erano tre porte, qui sono pannelli di plastica, lì era un gessetto rosso, qui una colata di vernice nera, lì una sedia sfondata, qui un trono di ferro. Ai simboli si affiancano una serie di scelte registiche oscure, prima fra tutte quella di alternare la viva voce al microfono, per un risultato spesso grottesco.
In mezzo a una tenebra tanto profonda, risplende la figura di Amleto, Lino Musella, a cui si deve un’interpretazione preziosa. Questo Amleto è un adolescente dai calzoni corti, innamorato, deluso, energico, ambiguo. Pazzo? Nel sottile limite fra la verità e la finzione, fra la follia e la simulazione, tra la vita e la rappresentazione, si crea miracolosamente un personaggio d’eccezione, un vero anti-eroe.