Svezia, vince la sinistra?

Dopo otto anni, la sinistra torna al potere in Svezia. Il vero vincitore, però, più che la coalizione guidata dall’ex sindacalista Stefen Loven (che non è riuscito a raggiungere la maggioranza) sembra essere Jimmie Akesson, leader dell’ultradestra svedese.

Quella dell’alleanza – affatto stabile – tra socialdemocratici, verdi ed ex comunisti era una vittoria annunciata. Per molti aspetti, è stata più una sconfitta del premier uscente Reinfel e dell’Alleanza, il cartello moderato conservatore che ha guidato il Paese dal 2006 ad oggi, che ha perso una decina di punti rispetto alle elezioni del 2010. Soprattutto, sembrano essere state bocciate sonoramente le sue politiche di rigore allineate ai popolari di Angela Merkel. Se, infatti, la crisi in Svezia si è fatta sentire meno rispetto agli altri paesi dell’eurozona, i costi in termini di disoccupazione e l’acuirsi delle tensioni sociali sono stati alti e l’insoddisfazione per un governo che ha ridotto il welfare, depauperato la scuola pubblica e si è mostrato troppo rigido con gli immigrati era evidente. A sconvolgere i pronostici della vigilia è stato piuttosto l’inaspettato exploit dei Democratici svedesi – il partito populista di estrema destra con una forte connotazione nazionalista, antieuropeista e xenofoba – che hanno più che duplicato i consensi, passando dal 5,7% al 12,9%, complicando non poco i futuri equilibri di governo. Con un magro 43,7 %, infatti, la coalizione di Loven (il cui partito si è fermato poco sopra il trenta percento) può aspirare solo a 158 seggi sui 175 necessari per formare una maggioranza. Loven, il «futuro premier meno votato della storia svedese», come è già stato definito, non potrà nemmeno contare sul seggio che si pensava potesse andare alle femministe, che non hanno superato la soglia di sbarramento. Le trattative sono in corso e – salvo colpi di scena – dopo otto anni il governo svedese cambierà finalmente colore. {ads1}Loven ha iniziato a guardarsi intorno, con un’unica, pare tassativa, esclusione: i Democratici di Akesson. Il giovane leader, però, intende far valere i suoi 49 seggi e già si presenta come «l’ago della bilancia», il vero kingmaker di questa tornata elettorale. Alla guida del partito dal 2005, dopo averlo ripulito dai simboli neonazisti e razzisti del passato – non senza alcuni scandali, anche nella recente campagna elettorale – Akesson è riuscito a trasformare Sveriges Demoktaterna nella terza forza del paese. Vicino all’Ukip di Farage al Parlamento Europeo, ma più simile nei toni al Front National o alla nostrana Lega Nord, Sd si è fatto forte della chiusura sui diritti civili e, soprattutto, sulla crociata anti-immigrazione. Il tasto su cui i populisti hanno battuto ossessivamente durante tutta la campagna elettorale cercando di stemperare le tinte razziste è chiaro: «meno immigrati significa un welfare più sostenibile per tutti». Per questo, in uno dei paesi che vanta una delle più ampie tradizioni di accoglienza, promettono di ridurre gli ingressi fino al 90%. Akesson non vuole essere chiamato razzista e, oltre a misurare le esternazioni pubbliche – è impossibile trovare sue dichiarazioni esplicitamente xenofobe – ha addirittura girato uno spot in cui figura accanto a due immigrati mentre una donna invita a ribellarsi al razzismo. Se le simbologie naziste non sembrano attrarre il leader, però, il posizionamento all’estrema destra del partito (con sconfinamenti nostalgici tra svastiche e braccia tese) è netto. Il loro boom è un segnale importante – e preoccupante – all’Europa stretta tra recessione e rigore, che sembra non riuscire ad arrestare uno scivolamento verso un ritorno nostalgico ai più neri incubi del passato.

 

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