Argentina: cronaca di un default fantasma
Dopo la doccia fredda alla finale dei mondiali, l’Argentina torna a confrontarsi con un vecchio spettro, quello della crisi economica e del default.
In questi giorni la memoria degli argentini è tornata indietro di 13 anni, al default del 2001 che fu l’ultimo di una serie di fallimenti sovrani cominciati nel 1980. Oggi tuttavia la situazione è piuttosto diversa, non solo perché l’Argentina stessa versa in una condizione molto dissimile da quella del 2001, quando il paese era in recessione, la disoccupazione era al 25% e il debito pubblico si aggirava sugli 80 miliardi. Inoltre lo scenario è tutto in divenire, perché sebbene tutti parlino di default, il governo argentino ha rigettato la definizione di «default tecnico» avanzata dall’agenzia di valutazione del credito Standard & Poor’s. {ads1}
Come mai? Innanzitutto Default non significa altro che fallimento, nello specifico quando qualcuno ha qualcosa da pagare (un debito) ma non ha i soldi per pagarla. Tuttavia in questi anni di globalizzazione finanziaria, e non a caso, le acque dell’economia e della finanza sono diventate piuttosto torbide. Infatti esistono più tipi di default: il primo viene accertato e stabilito dalle società di rating, le famose Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch, che però possono interpretare il default in modo piuttosto arbitrario; il secondo tipo di default scatta quando uno stato obbliga chi vanta un credito nei suoi confronti ad uno scambio con titoli meno convenienti (e solo chi si è assicurato contro il rischio di default può riscuotere il risarcimento); il terzo caso è chiamato proprio il “caso argentino” cioè quando uno stato decide di non pagare e non procedere ai rimborsi.
La situazione attuale, specie per chi mastica poco pane e finanza, sembra essere differente e non poco ingarbugliata. L’attuale “default” dell’argentina è scattato come conseguenza del mancato pagamento da parte del governo di una rata in scadenza il 30 giugno dovuta a diversi creditori che in passato hanno acquisito il debito del paese e hanno accettato di rinegoziarlo tra il 2005 e il 2010. Il problema è che quei soldi invece ci sono e sono stati versati dal governo argentino regolarmente, ma giacciono congelati nelle banche newyorkesi. Per quale motivo?
Perché il giudice Thomas Griesa ha emesso il 30 giugno un’ingiunzione di pagamento contro il governo argentino richiedendo il risarcimento immediato per una serie di fondi speculativi che hanno comprato parte del debito argentino a basso costo al momento del default del 2001 e si sono rivolti poi ai tribunali pretendendo il pagamento di 1.330 milioni di dollari più gli interessi. Griesa ha quindi intimato al governo argentino di saldare il suo debito entro il 30 luglio e, nel frattempo, congelato i depositi presenti nelle banche americane.
Qual è il punto? Che i “fondi avvoltoi” che richiedono l’immediato pagamento rappresentano meno dell’8% dei detentori del debito argentino, ma una sentenza simile potrebbe aprire la strada a ricorsi analoghi rischiando di mettere in ginocchio il paese. Se il restante 92,4% dei creditori avanzasse la stessa pretesa sarebbe più o meno la fine, e in definitiva non converrebbe ai creditori stessi.
La situazione ha dell’assurdo ma per Buenos Aires è piuttosto limpida: non si tratta di default perché i soldi sono lì. Inoltre Griesa è stato accusato di assoluta parzialità nei confronti degli hedge found, e il mediatore da lui nominato, Daniel Pollack, di palese incompetenza.
Tra le soluzioni possibili la più accreditata sembra quella di un negoziato parallelo tra una cordata di banche e i fondi avvoltoi: trattative private che non implicherebbero le rivalse degli altri creditori. Nel frattempo però il governo ha chiesto alla Consob argentina di aprire un’inchiesta per verificare se “questo processo non è in realtà la facciata di una manovra speculativa a favore degli avvoltoi”, garantendo loro “il pagamento di assicurazioni contro default che hanno ammesso possedere” (leggi il seguente articolo di Repubblica).
In ogni caso il paese, a parte colpi di scena come il ricorso all’Aja o all’Onu, si vede costretto a una serie di veroniche per niente facili. Ma più in generale risulta intollerabile lo strapotere della finanza internazionale, la quale versa ancora in uno stato di totale deregolamentazione, assolutamente libera, quando vuole, di sopraffare e calpestare i diritti dei popoli e degli stati sovrani.