News – “Fronte del porto”, sessant’anni di un capolavoro
Accade spesso che il cinema sia lo specchio della vita. Anche dopo ventotto minuti dall’inizio di Fronte del porto, diretto da Elia Kazan, qualcosa di più di un capolavoro, uscito nella sale americane esattamente sessanta anni fa.
Accade quando Marlon Brando, gomma da masticare tra le labbra, giaccone a quadri e modi da spaccone, si tocca il naso e, riferendosi a se stesso, scandisce: «Certe facce è difficile dimenticarle». Vita e cinema si confondono e creano, all’istante, una delle icone del Novecento. Sessanta anni fa. Negli Stati Uniti del 1954, On the Waterfront è l’epicentro di un piccolo terremoto che si propaga nella società dello spettacolo. Diventa subito il film dell’anno: vince otto Oscar (e un Leone d’argento a Venezia, ex-aequo con La strada di Fellini) che consacrano il talento di Brando e il genio di Kazan. Ed è chiaro che attraverso quelle immagini in movimento, il regista riflette sulla propria esistenza, o meglio sulle vicende che avevano segnato la sua immagine pubblica negli ultimi due anni. E qui bisogna abbandonare il volto di Marlon Brando e allargare il piano fino ad arrivare in prossimità della macchina da presa.
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È il 10 aprile del 1952 e il regista, fondatore dell’Actor’s Studio e reduce dalla direzione di Quel tram chiamato desiderio, si presenta a deporre di fronte alla Commissione per le attività antiamericane. Maccartismo, caccia alle streghe, l’anticomunismo che diventa fobia collettiva e isteria. Gli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta sono anche questo. E Kazan non sfugge allo spirito del tempo. Fa i nomi, denuncia undici suoi colleghi. Per alcuni di questi la carriera cinematografica s’interrompe all’istante. Nei mesi successivi, il regista vive nell’indifferenza e nel disprezzo. Il suo ambiente gli diventa immediatamente ostile. Colleghi e critica lo accusano, anche pubblicamente, di delazione, tradimento. Arthur Miller rifiuta di collaborare con lui proprio per la sceneggiatura di Fronte del porto. Ecco perché la storia di Terry Malloy, lo scaricatore interpretato da Brando, diventa simbolo del tentativo di redenzione di Kazan, quasi la sua richiesta di perdono. Il percorso di Malloy è quello del regista: dalla complicità con chi sfrutta e perseguita chi fa parte della tua stessa classe sociale alla ribellione per ritrovare la libertà, la possibilità di vivere sfuggendo alle dinamiche opache del potere.
Nessuno meglio di Brando poteva dar volto al cammino di Kazan attraverso i propri demoni: allievo dell’Actor’s Studio, l’attore aveva imparato a creare affinità psicologica con il proprio personaggio, metodo Stanislavskij insomma […]. Brando, Kazan, il cinema come luogo per esercitare una funzione critica nei confronti della società […].
Dopo Fronte del porto, per Brando e Kazan cambia qualcosa. Il regista non toccherà più quelle vette espressive. E l’attore, finalmente Oscar, diventerà il divo a tutti gli effetti. Senza mai cadere, però, nel conformismo da star, anzi utilizzando la propria posizione e il proprio enorme talento per mettere in discussione luoghi comuni, cinematografici e non, della macchina hollywoodiana […] (fonte Repubblica).