Vite in gioco: connivenza tra Stato e lobbies del gioco
Di passi avanti ne sono stati fatti rispetto al tema della regolamentazione del gioco d’azzardo. Molte sono infatti le norme restrittive, a discapito dell’apertura all’industria del gioco a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, che stanno passando in esame in Parlamento. Allargare il potere decisionale dei comuni sul tema, insistere sul divieto, parziale, di pubblicità del gioco, riconoscere le campagne no slot come elementi utili alla società.
E le campagne no slot, quelle che partono dal basso, come per esempio lo slotmob così come le leggi regionali, hanno fatto e stanno facendo moltissimo per sensibilizzare i vari comuni sul tema del gioco d’azzardo. Sono servite, inoltre, da risposta a situazioni sgradevoli e rischiose che la gestione mal controllata di un elemento così potente e capillare quale l’industria del gioco ha costretto a sopportare, come per esempio quella raccontata da Lorenzo Basso, deputato del Pd:
«Una consigliera comunale, in Liguria, si era opposta all’apertura di una sala giochi. Di tutta risposta ricevette un santino bruciato, come avvertimento della mafia locale. Questo rappresenta un esempio emblematico del bisogno di creare una rete territoriale attiva e attenta alle esigenze dei cittadini». Ed è quello che si sta facendo grazie allo slotmob e alle leggi regionali. Il buon esempio di un barista che si rifiuta di installare una slot machine all’interno del suo esercizio commerciale, piuttosto che l’approvazione di una legge regionale, sono tutti elementi che hanno dato voce a delle realtà stanche di un determinato sistema e che, dal basso, hanno dato vita a una reazione a catena su scala nazionale. Non tutto però è così rose e fiori. Ciò che infatti rappresenta un potenziale ostacolo al passo avanti che l’Italia, Paese dove il gioco d’azzardo rappresenta la terza industria più importante, sta compiendo al rispetto è il fatto che l’approvazione delle norme in esame in Parlamento è tutt’altro che scontata. Da più di un anno, però, dura questo esame. A cosa va imputata, dunque, questa resistenza a una regolamentazione e non proibizione, parola che al nostro benpensante Paese fa sempre così paura, del fenomeno del gioco d’azzardo? Beh le risposte potrebbero essere molte e complesse, ma tutte da rintracciare nel discorso del conflitto di interesse, che lega lo Stato alle multinazionali dell’industria del gioco. E proprio questo scenario è stato sommariamente illustrato da Gabriele Mandolesi, uno dei coordinatori della campagna slotmob, durante la presentazione del libro Vite in Gioco, curato da Carlo Cefaloni e testimonianza, a più penne, delle varie facce del gioco d’azzardo: dalle probabilità matematiche di vincita alla piaga dell’usura, dal gioco d’azzardo patologico agli aiuti per combatterlo. «Quando siamo andati ad analizzare le dieci grandi sorelle che operano nel settore del gioco d’azzardo, e delle slot machine nello specifico, ci siamo imbattuti subito nel problema della mancata trasparenza che aleggia intorno alla struttura proprietaria di queste società. La Sisal, per esempio, così come altre, è posseduta da un’altra società italiana, posseduta a sua volta da una società lussemburghese, Paese che, guarda caso, ha una tassazione molto bassa di cui non è possibile risalire al proprietario. Dietro a queste società potrebbe esserci chiunque e quello che ci chiediamo è: possibile che società multinazionali, che fatturano moltissimo grazie a delle concessioni pubbliche fatte dallo Stato, possano operare così all’oscuro?» Così come ci si è chiesto, sempre durante la presentazione del libro Vite in Gioco, su chi e come opera all’interno del settore del gioco. «Alcune concessioni statali – continua Mandolesi – obbligano le multinazionali a spendere un tot per le pubblicità del gioco: maggiori investimenti in pubblicità uguale a maggiori entrate erariali. Oltre a questo alcune concessioni richiedono obiettivi di performance che le società devono raggiungere: per esempio almeno l’80% del fatturato dell’anno precedente». Un’induzione a un suicidio di massa mascherata da requisiti legalizzati.
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E a questo punto Daniele Poto, curatore del dossier Azzardopoli, pubblicato su Libera e presente anche in Vite in gioco, afferma: «Facciamo altri nomi, in modo da denunciare l’operato di questo Stato schizofrenico, uno Stato che non è proibizionista, non deve esserlo, – seguendo l’esempio del modello americano del liberismo, dove però gli Stati Uniti sono in grado di porre limiti all’industria del gioco, per esempio vietando l’ingresso dei minorenni nei casinò (ndr) – ma che, allo stesso modo, vuole anche fare delle leggi, come sta succedendo adesso. Nonostante il mio impegno, come quello di tanti altri quali l’onorevole Basso, non sono molto ottimista rispetto alla risoluzione del problema del gioco. Potrei fare numerosissimi nomi di politici aventi comportamenti più che discutibili e che esemplificano in pieno la fusione tra legalità e illegalità nell’industria dell’azzardo. Da Augusto Fantozzi, ex ministro del Tesoro e Presidente attuale della Sisal la quale, durante il mandato del primo, vinse molte concessioni, all’onorevole Amedeo Laboccetta, rappresentante di vari concessionari e protettore dell’industria del gioco, fino a Piero Fassino che, evidentemente, ha trovato molto attraente far affiggere per tutta Torino tabelloni pubblicizzanti il gioco del lotto della società Casacci e Soci». Discorsi carichi quelli qui riportati, ma che vale la pena ascoltare o leggere fino in fondo, considerando che, in questa sede, mezzi termini non sono stati utilizzati per prendere di petto uno Stato complice della nostra crisi, uno Stato connivente, o forse impaurito da una criminalità organizzata che uccide lentamente le persone sia dal punto di vista economico che psicologico. Uno Stato che, in realtà, uccide anche se stesso. Uno Stato che vuole ma non può, o può ma non vuole, prendere una posizione. Uno Stato che ci prende in giro, che si prende in giro o, forse, entrambe le cose.