I Fratelli di Terenzio a Ostia Antica

Come sempre, per lo spettatore che va al Teatro Romano di Ostia Antica lo spettacolo inizia prima di quando si spengono le luci sul palco. Inizia anche prima di sedersi sulle gradinate di un teatro costruito 2000 anni fa, quando si cammina tra gli scavi con le ultime luci del tramonto.

Quando, dietro ai mattoni che delimitano la scena, si intravedono gli attori pronti nei loro costumi da teatro antico, quelli di stoffe sintetiche e colori un po’ troppo accesi che non possono rispondere alla ricostruzione storica, ma per noi significano immediatamente spettacolo classico. Quando si salutano i cani che non conoscono la legge del guinzaglio, come se anche loro fossero fuori dal tempo, ma istintivamente sono accucciati proprio lì a guardarci salire gli scalini, nel ruolo di guardiani del teatro o forse dell’illusione storica tra presente e passato. Poi con l’aria fresca che arriva dal mare, con i grilli e persino con i nitriti dei cavalli in lontananza, si abbassano le luci e una musica popolare e arcaicizzante ci porta ad Atene e dà il va alla storia de I Fratelli.

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 Lo spettacolo del 19 luglio, Adelphoe secondo il titolo latino alla greca, è tratto dal testo di Publio Terenzio Afro ed è il primo dei veri e propri classici di questa stagione estiva del Teatro Romano di Ostia Antica (seguiranno Le Nuvole di Aristofane il 26 luglio e l’Agamennone di Eschilo il 6 Agosto). La trama, che il commediografo latino ha ripreso dal greco Menandro, è abbastanza nota: di due fratelli, uno è educato dal padre naturale secondo rigidi costumi tradizionali, l’altro dal fratello del padre, liberale, permissivo e sempre pronto a finanziare le giovanili imprese del figlio adottivo. L’intreccio originato dalle azioni dei giovani unisce tutti gli elementi comici classici: un rapimento di una flautista, gli inganni di un servo, una ragazza messa incinta, le prese in giro di un lenone e del vecchio padre . Il pubblico ride del servo che dà indicazioni stradali labirintiche, del giovane (quello che il padre reputa serio e assennato grazie ai suoi severi metodi educativi) che fantozzianamente saltella e fa versi animali prima di raggiungere a letto la ragazza di cui si è invaghito e che il fratello gli ha finalmente procurato. Ride anche quando il vecchio padre scopre la realtà dei fatti e quando cambia improvvisamente carattere disarmando tutti con la sua nuova gentilezza: una risata vera, accompagnata, però, da quel velo di amarezza di quando si parla della morale dell’uomo.

Lo spunto alla riflessione che i contemporanei di Terenzio non apprezzavano nei suoi lavori (condannando il commediografo a un eterno secondo posto rispetto alla comicità di Plauto) contribuisce a rendere il testo così vivo per noi oggi. Si parla, in questo caso, dell’educazione dei figli o anche, allargando il discorso, dell’eterno conflitto tra l’essere buoni e l’essere giusti, l’essere amati perché si è sempre pronti a fare ciò che l’altro vuole o perché si è severi e si insegna ciò che va fatto. Per farci ridere e per farci pensare, al regista dello spettacolo, Silvio Giordani, non è servita una scenografia, né grandi soluzioni di riadattamento rispetto al testo latino. Con una schiera di attori (tra cui Pietro Longhi e Felice Della Corte), con giochi verbali e persino qualche citazione in latino, con le tecniche più tradizionali del teatro classico, dalle battute scambiate direttamente al pubblico alle scene tipiche, lo spettacolo si procura risate ai momenti giusti, un’ottima dose di applausi e anche, riattraversando gli scavi sulla via del ritorno, qualche discussione tipo “nessuno riuscirà mai a dire come è meglio fare i genitori”. Non sembra, allora, solo retorica la domanda con cui gli attori dello spettacolo ci salutano: questa commedia è stata rappresentata per la prima volta 2174 anni fa: vi sembra vecchia?.

Twitter: CardinaliRob

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