Nigeria, fuga dai Boko Haram

Un unico obiettivo, tornare a casa. Sfuggire a quei carcerieri che il 24 giugno le avevano strappate alle loro vite. Aspettavano solo il momento giusto per scappare da quell’inferno. E venerdì quel momento è arrivato.

Sono sessantatre, secondo la polizia nigeriana, le donne che hanno fatto ritorno al piccolo villaggio di Kummabaza, nello stato di Borno. In sessantotto erano state sequestrate nel nordest del Paese dai Boko Haram, i miliziani jihadisti attivi dal 2000 – il cui nome è traducibile come “l’educazione occidentale è peccato”- che hanno come obiettivo l’imposizione della sharia in Nigeria. Sono fuggite approfittando dell’assenza dei rapitori, impegnati in un’operazione militare vicino a Damboa in cui, secondo l’esercito nigeriano, sono rimasti uccisi almeno cinquanta membri dei Boko Haram. In pochi erano rimasti a controllare il campo e, una volta crollati nel sonno, per le donne è stato finalmente possibile arginarne la sorveglianza e scappare in silenzio. La notizia della fuga è stata confermata dalla polizia nigeriana, secondo quanto riporta l’agenzia Sahara Reporters: «I colleghi di Damboa mi hanno avvertito che 63 delle 68 donne rapite sono riuscite a tornare a casa – ha detto l’agente, Abbas Gava – le giovani hanno compiuto questo gesto coraggioso mentre i loro rapitori erano assenti, impegnati in un attacco». Anche un alto funzionario della sicurezza a Maiduguri, citato da Premium Time, si è detto sicuro: “Non c’è dubbio, le donne sono riuscite a scappare“. {ads1} Altre cinque donne – sarebbero sette secondo Sahara Reporters, e con loro ci sarebbero due bambine, una delle quali neonata – rimangono però nelle mani dei miliziani. E non sono sole. Assieme a loro, continuano ad essere prigioniere dei Boko Haram le 223 studentesse rapite dal gruppo islamista nella scuola di Chobok il 14 aprile. Abubakar Shekau, leader del gruppo, il 5 maggio ha diffuso un video in cui, oltre a rivendicare il sequestro, minacciava di “trattare come schiave” e “vendere al mercato” le studentesse dopo averle convertite all’Islam, e che “invece di andare a scuola avrebbero dovuto essere regolarmente sposate”. Poi ha tentato una trattativa – fallita – con il governo di Abuja, promettendo la liberazione delle giovani in cambio del rilascio di alcuni compagni prigionieri.

Il rapimento delle ragazze aveva suscitato un grande movimento d’opinione e migliaia di persone in tutto il mondo avevano chiesto il loro rilascio e un intervento affinché potessero tornare a casa. Quelle studentesse, per un po’, sono diventate “nostre” e tutti, ma proprio tutti sembravano interessati alla loro sorte e partecipi del loro destino. L’hashtag #bringbackourgirls, omonimo del gruppo nato in Nigeria ma rapidamente diffusosi, ha imperversato per un po’ su Twitter, rilanciato anche da Michelle Obama che dello sdegno occidentale era diventata il simbolo. Poi, come spesso accade,è uscito dai trend topics e dall’interesse di chi aveva pensato di conquistare l’indulgenza sociale impegnandosi a suon di selfie e tweet per poi dimenticarsi in un attimo di quelle ragazze scomparse. Loro, sono ancora prigioniere. Quanti se ne ricordano?

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