Dreamings: L’arte aborigena incontra De Chirico
L’arte possiede, tra i molti poteri, anche quello di annullare le distanze geografiche; di creare dei ponti invisibili tra culture molto differenti tra loro. Visitare la bellissima mostra, curata da Ian McLean e Erika Izett al museo Bilotti, all’interno della verdeggiante cornice di Villa Borghese, è un’esperienza capace di suggellare nella mente questa intramontabile verità.
Dreamings è il nome di questo singolare percorso espositivo che sembra estendere il suo fascino nell’apparente stranezza del suo sottotitolo: L’arte aborigena australiana incontra De Chrico. L’immaginazione dello spettatore è fin da subito spinta a compiere un salto nel dialogo sotteso tra una piccola rappresentanza di artisti aborigeni australiani e il più grande esponente dell’arte metafisica, Giorgio De Chirico. Il confronto tra queste due campi così distanti è moderato da un altro illustre artista che attraverso le sue opere, presenti in mostra, assurge al ruolo di interprete: Imants Tillers. In questo viaggio, immersi nel mistero dell’arte metafisica ne riconosciamo la sua capacità di generare corrispondenze tra gli oggetti e tra le diverse epoche, «come se ci fossero delle forze invisibili che agiscono sul mondo». Grazie alle infinite possibilità espressive che offre loro la pittura, gli artisti aborigeni descrivono il loro legame con una immane realtà cosmologica, chiamata appunto il Sogno (Dreaming).
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È certamente qui che possiamo trovare delle convergenze e delle affinità tra la loro arte e la ricerca di De Chirico di «profonde realtà universali, radicate nel suo caso, nella cultura classica del Mediterraneo». Attratto dalla «implicazioni metafisiche» che in un certo senso coinvolgono entrambi, Tillers ha sviluppato un’arte capace di effettuare una sintesi tra questi due ambiti così diversi, diventando alla fine una sorta di trait d’union. Il suo Manifesto degli antipodi, esposto al secondo piano è forse l’emblema di questo suo encomiabile tentativo. Nella sua imponente verticalità il quadro sembra ritrarre una mansarda sospesa nel cielo dentro cui sono accalcati oggetti provenienti dall’universo ‘archeologico’ dechirichiano. Ai lati due grandi finestre contrappongono simmetricamente un spicchio di luna e una parte di sole mentre al centro come fosse il fulcro dell’intera figura campeggia una spirale propria dell’arte aborigena da cui si dipartono raggi sinuosi ancora di ascendenza dechirichiana.
È stato il deserto occidentale australiano la culla del famoso movimento pittorico del Western Desert sorto nel 1971 a Papunya, piccolo centro creato nel 1959 per «accogliere e modernizzare le condizioni degli ultimi aborigeni che ancora vivevano secondo gli stili di vita tradizionale nei remoti deserti Great Sandy, Little Sandy e Gibson». Ideato da una ventina di artisti, il movimento rappresenta una risposta concreta alla modernità a lungo ostile ai popoli autoctoni dell’Australia; un modo per trasmettere sia all’interno sia all’esterno delle loro comunità sopravvissute alla colonizzazione «l’ontologia aborigena e le loro credenze sulla natura dell’essere, oltre a sviluppare un’economia che consenta loro di vivere nel nuovo mondo». L’arte quindi come possibilità di conservare le proprie radici, sostenere la propria cultura e al contempo dare sfogo alle aspirazioni alla contemporaneità. Desiderosa di trovare spazio nel mercato internazionale dell’arte la produzione di questi artisti presenta forti analogie con l’arte occidentale; dai colori acrilici su tela fino ai suoi esiti artistici dell’astrattismo in grado come il ritmo e le cadenze della musica di favorire «tanto il canto, quanto il sogno a occhi aperti» elementi tanto cari alla loro millenaria tradizione.