Con Melania Mazzucco: di scrittura e di porte chiuse
Scrivere per Mazzucco è una cosa seria. Vengono le storie e i personaggi e li accogli dedicandogli una parte della tua vita; accetti, come con un figlio, che ciò che hai scritto vada poi per la sua strada; sai che ancora oggi, alla fine, la letteratura fa paura, come hanno dimostrato i fatti del Giulio Cesare di Roma.
Intorno a un tavolo con gli studenti di un master della Sapienza, Melania Gaia Mazzucco racconta, pochi giorni dopo le polemiche per la lettura a scuola di un suo libro, cosa significa per lei scegliere di dedicare una vita alla scrittura. Alla base c’è un’idea di letteratura che, senza volerlo, si riscopre classica. «Nel tempo mi sono resa conto che più importante di tutto, forse, per me è quanto si diceva nella retorica classica sul discorso. Il discorso deve “docere” (insegnare), “probare” (convincere), “delectare” (piacere) e “movere” (commuovere). Questi quattro verbi me li sento parecchio cuciti addosso sull’idea di letteratura che ho, almeno per i romanzi. Un’idea di letteratura che debba “piacere” – e però “commuovere”, cioè lavorare sull’emozione, far passare la parte intellettuale che la precede attraverso l’emozione, e avere anche un contenuto, un senso, che può convincere o meno, ma che è la posizione dell’autore, sempre dentro al testo». Una scelta di letteratura che, per Mazzucco, è presente già nell’Odissea. Gli aedi, ci insegnano i poemi omerici, possono cantare due cose: da una parte le storie che sono già accadute, le storie degli dei e degli eroi, l’epica; dall’altra le cose che stanno ancora accadendo, come i ritorni dei combattenti dopo la guerra di Troia.
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Questo, secondo Mazzucco, c’è anche nei suoi libri. Dei suoi romanzi, alcuni sono “epici” nel senso che parlano di cose avvenute nel passato, accadute a personaggi minimi o massimi, ma comunque reali: è il caso di Lei così amata (sulla scrittrice svizzera Annemarie Schwarzenbach), dei libri su Tintoretto (il romanzo La lunga attesa dell’angelo, e la grande biografia Jacomo Tintoretto & i suoi figli) o anche di Vita (libro, vincitore del Premio Strega 2003, che racconta del nonno migrato in America da bambino). Altre volte, però, l’esigenza della scrittura è di raccontare storie ‘nuove’ come il ritorno degli eroi, cose che stanno accadendo, «cercando di andare a guardare dove c’è il silenzio, dove non ci va di guardare, possibilmente scegliendo sempre il punto di vista non accettato da tutti. Perché la letteratura non deve attraversare una porta aperta, ma cercare di aprirne una chiusa». E così sono nati romanzi come Limbo, su una donna soldato, o Sei come sei, al centro delle recenti cronache di Roma per una polemica di cui vale la pena parlare e da cui è partito il dialogo con gli studenti del master.
Prima, gli estremi della vicenda: c’è un romanzo che racconta la storia di una bambina cresciuta con due padri, assegnato come lettura scolastica in alcune classi dello storico liceo romano Giulio Cesare. Subito, contro gli insegnanti che hanno promosso tale lettura, c’è l’esposto delle associazioni “Giuristi per la Vita” e “Pro Vita Onlus”, originato in particolare dalla presenza, nel romanzo, di una decina di righe in cui si racconta di un rapporto omosessuale. L’esito della vicenda, secondo un triste quanto prevedibile copione, è stato l’offrire un pretesto per dare voce a chi, di voce, se ne prende già molta con la violenza, in questo caso a quei ragazzi di Lotta Studentesca che, protestando contro il liceo, hanno esposto l’eloquente striscione “Maschi selvatici, non checche isteriche”.
Che è successo con Sei come sei? Si aspettava potesse accadere una simile bufera?
Al di là del fatto di cronaca, mi sembra importante dire che il mio libro è stato letto in molte scuole, licei e medie, anche per lo spunto di una direttiva europea che chiedeva alle scuole progetti educativi, discussioni e laboratori contro discriminazioni di genere e omofobia. Le varie scuole si sono organizzate diversamente. Alcune hanno invitato psicologi, testimoni che potessero raccontare la loro esperienza, altre hanno organizzato corsi, fatto scrivere temi e girare video; alcune hanno scelto di far leggere dei libri, tra i quali anche il mio. Ecco, quello che non piace è proprio questo: che si parli, che si discuta coi ragazzi di questi argomenti. Il mio libro è stato solo un pretesto per bloccare questa cosa, per evitare che nelle scuole si educhi alla diversità, alla molteplicità. Quello che a me è sembrato molto grave è proprio l’idea di intimidire quelli che fanno questo lavoro: non tanto me, ma i professori, i presidi, e quindi silenziare questo dibattito. Tutto ciò però mi ha fatto fare una riflessione: in questi ultimi 20-30 anni si parla spesso di letteratura come una cosa superflua, ormai completamente assoggettata al mercato, alle regole del commercio, della produzione, della serialità e che non ha più capacità di interferire sulla realtà e di avere un senso, uno scopo anche. Ciò che è successo con questo mio libro dimostra che invece non è così. E che allora, se qualcuno ne ha paura, vuol dire che la letteratura può ancora servire per pensare. Poi non si è mai preparati alla valanga di fango che può esserti rovesciata addosso. Perché uno è abituato a dialogare, a fare incontri anche con persone che non la pensano come te: ma le denunce, la censura, il rogo dei libri, le proscrizioni, questo esula dalla mia idea di civiltà. In generale, l’idea di far leggere libri nelle scuole è cosa importantissima e necessaria: provare a vietarlo col pretesto dei contenuti è tremendo.
Si è consapevoli quindi del fatto che il problema è trattare alcune tematiche sociali?
Dipende. Sì, io so che Sei come sei ha fatto tanto scandalo non certo per quella scena in cui si parlava di sesso, ma perché parla di una famiglia nuova, e questo in Italia è un tabù. Ed è giusto che si crei discorso, riflessione e arrabbiatura anche. Il fatto è che Sei come sei può sembrare un libro provocatorio, ma per me non lo è, non ha questo intento. Prima di tutto, si sente spesso parlare di figli nati da due madri o da due padri come soggetto di un dibattito, in cui in chiave ideologica la gente deve esprimere un parere “io sono d’accordo” o “io non sono d’accordo”. Ma la realtà è diversa. Non si tratta di un dibattito, ma di un fatto; queste famiglie esistono, e sono tante. Io conosco bambini nati e vissuti con due madri o due padri. Per me la letteratura non deve aver paura di raccontare ciò che accade. Poi, per me, il centro di questo romanzo è un altro: è la paternità, è il rapporto fra una figlia e una persona che non ti è padre di sangue. Questo tema è molto più vasto, anche perché oggi le tecniche scientifiche hanno dato la possibilità di avere figli a tante persone che prima non ce l’avevano, quindi si sono creati rapporti genitoriali nuovi; non nuovi, in realtà, perché anche nei tempi passati queste situazioni esistevano, però adesso le persone ne sono consapevoli, quindi i figli si trovano a essere nati non necessariamente nei modi in cui si nasceva una volta, e anche i genitori sono tali in modi diversi. E per me è questo l’argomento interessante, perché la prima domanda in questo caso è “cosa vuol dire essere padre?” Vuol dire essere soltanto quello che ha dato il suo seme oppure vuol dire essersi occupati di un bambino, averlo accudito, cresciuto? Per me è questo il centro del mio libro.
Quanto conta la componente sentimentale in un romanzo?
Il coinvolgimento personale conta tanto, ovviamente. Per Vita, ad esempio, io avevo la storia: quella di mio nonno che è partito da ragazzino, da solo, per andare in America. Tema grande: già De Amicis aveva raccontato l’emigrazione degli italiani, perché durante un viaggio in Sud America per una conferenza si era ritrovato nella stessa nave dei migranti, che viaggiavano in condizioni penose. Alcuni bambini morirono durante la traversata. Turbato, lui si interrogò sul perché una madre potesse far affrontare ai figli un simile rischio. De Amicis però viaggiava in prima classe – e nonostante l’empatia e la volontà di comprendere le ragioni degli emigranti, non riuscì davvero a farlo. Io, invece, conoscevo la storia da un altro punto di vista: avevo ereditato i sentimenti di quelli che viaggiavano in terza classe, dove una madre non si fa fermare dal rischio, di cui pure è consapevole, perché sa che, se rimanesse nel suo paese, il figlio morirebbe di sicuro. E i fratelli di mio nonno rimasti nel loro paese davvero sono morti, mangiando l’intonaco della chiesa perché non avevano altro cibo da mettere sul pane. Io in pratica avevo viaggiato in terza classe con queste persone e con queste idee. E il tempo che separa me dal ragazzino in mutande, quei cento anni tra mio nonno e la donna che ora può raccontare questa storia, sono la storia del nostro paese, le opportunità che abbiamo saputo creare con tutto quello che ci è successo. La letteratura, per me, sia nella fase della scrittura, sia nella lettura, deve essere un’esperienza. Un libro che non mi lascia qualcosa in più rispetto a quando ero partita, per me non è valsa la pena scriverlo. E viceversa, leggerlo. Spesso mi chiedono come faccio a creare un personaggio, ad esempio il Tintoretto. Come ho fatto io, donna, a poco più di quaranta anni, a scrivere di un uomo di ottanta anni? Non so come si fa, non c’è una ricetta segreta né potrei dare una sola risposta. Però è il lavoro che fanno gli attori: diventare altro da sé. E lo devi fare per scrivere.
Quindi com’è vivere la propria vita insieme a quella degli altri di cui si scrive?
È una scelta forte, è comunque un viaggio in cui mi avventuro alla scoperta di qualcosa che in parte è già dentro di me, però in parte no, e scrivere mi serve appunto a comprenderlo. Ad esempio la protagonista di Lei così amata, la scrittrice e fotografa Annemarie Schwarzenbach, figura interessante della cultura europea anche per la sua scelta di identità sessuale e per la sua vita nomade, continuamente alla ricerca di sé stessa, l’ho conosciuta attraverso i libri degli altri e attraverso qualche sua fotografia di viaggio; ma di lei, morta nel ’42 a 34 anni, era rimasto pochissimo di pubblicato e tanto materiale inedito negli archivi svizzeri. Io ho pensato subito che volevo scrivere un libro su di lei e mi sono messa da zero a studiare il tedesco, apposta per scrivere questo libro, finché non sono stata in grado di leggere le sue carte e andare in Svizzera a studiarle. La ricerca è stata lunga. Ci ho messo un sacco di anni a completare il romanzo, però mi era chiaro che volevo scriverlo essendo coetanea della mia protagonista: cioè dovevo finirlo non oltre i miei 34 anni. Volevo scrivere di questa vita breve, di una giovane donna che aveva rinunciato a essere adulta – Annemarie sostanzialmente è un’adolescente perpetua che non si è mai voluta inquadrare da nessuna parte – perché mentre scrivevo il libro io ero come lei. Capivo perfettamente la sua storia, le sue insicurezze, le sue crisi, le sue fughe, i suoi sogni; sapevo come raccontarla e potevo camminare accanto a lei, ma soltanto se non fossi diventata più grande di lei. Poi, quando si finisce di scrivere i libri, per me è un lutto. Il lutto più grande di tutti forse è stato quando ho finito i miei due libri su Tintoretto e la sua famiglia, perché avevo veramente vissuto con loro per dieci anni. Mi ero trasferita a Venezia, avevo imparato a parlare veneziano e sapevo tutto di quella città: c’è stato un momento in cui avevo letto nei faldoni degli archivi qualcosa come ventimila dichiarazioni dei redditi di veneziani per sapere quanto guadagnavano, se erano evasori fiscali, dove abitavano, quanti materassi avevano nei loro inventari, se avevano gioielli, strumenti musicali, pellicce etc. Sapevo tutto di tutti. E, anche se camminavo nella Venezia del 2009, vivevo nella Venezia del 1580: guardavo le case riconoscendo che in questa abitava Giovanna “l’occhialara” e in quella c’era il forno di Gaspare… Sono stati anni bellissimi. Quando ho finito i due libri, insieme, ho capito che non sarei mai più potuta tornare così dentro. Succede così, sei espulso da quel mondo e sai che non ci potrai più rientrare.
C’è qualcosa di comune, un’idea di scrittura fondante da cui nascono romanzi così diversi come i suoi?
Forse sono un caso anomalo perché non riesco a scrivere una storia se in quel momento quella storia non diventa la cosa più importante e totale. Tutte le mie storie quindi sono nate di volta in volta dal desiderio di raccontare dei personaggi. Da un lato l’idea di lavorare sulle vite perdute e sulla restituzione della memoria, come nel caso di Marietta la figlia di Tintoretto o della scrittrice Annemarie: delle persone in cui troviamo qualcosa di noi stessi, perché nel passato hanno fatto la stessa ricerca, lo stesso viaggio, e quindi hai il desiderio raccontarle alle persone che hai intorno nel presente. Altre volte sono dei personaggi immaginari – o delle situazioni, dei luoghi, delle atmosfere, che mi possono ossessionare. Ad esempio Un giorno perfetto è nato da una esperienza da cui non avrei pensato mai potesse nascere un libro. Praticamente ero stata sfrattata e stavo cercando casa: ne ho viste una quarantina, credo, e in buona parte ammobiliate. Cioè: entravo in casa di altra gente, che in quel momento non c’era. Avevano lasciato le loro cose come se dovessero tornare da un momento all’altro. E io ho sentito fortissima la sensazione di violare la vita altrui – vita di cui io, come scrittrice, coglievo tutto. Tu non eri consapevole della mia esistenza, ma io vedevo la tua cucina, vedevo il libro che stavi leggendo sul comodino, vedevo il bagno che avevi scelto – persone che hanno una casa microscopica avevano un bagno che sembrava le Terme di Caracalla: potrei scrivere un libro sui bagni – la forma e la misura dei letti, i vestiti, i giocattoli dei bambini… L’ho capito solo dopo: ma quelle passeggiate nella vita degli altri assenti sono diventate la scena dell’inizio – e della fine – del romanzo. Quando i poliziotti entrano nell’appartamento dove c’è stato il delitto. Il rapporto fra la mia esperienza e il libro è emozionale e astratto: nel senso che nessun elemento concreto che ho visto è finito nel romanzo. Ma ne è nata l’idea di immaginare le vite di quegli altri assenti – come se non ci fossero più, come se fossero morti, e non potessero tornare. E le case vuote sono diventate la casa dei Buonocore.
E Sei come sei?
A posteriori mi sono accorta che Sei come sei deve molto a un quadro visto in un museo di Budapest, e di cui si parla anche nel romanzo. È ‘San Giuseppe con Gesù’ di un pittore spagnolo del Seicento, Francisco de Herrera il Vecchio. C’è un san Giuseppe giovane, bello e bruno, dell’età giusta per essere marito di Maria e padre di Gesù. Non è il vecchio che abbiamo presente perché ricorre nell’iconografia della pittura italiana: sempre raffigurato rugoso e cadente perché chi lo guarda non si possa nemmeno immaginare che sia lo sposo carnale di Maria. Questo Giuseppe è invece un papà che porta il figlio in braccio in un bosco. Ma il pittore non intende trasmettere nessun messaggio eversivo. Il suo quadro fa capire che può essere padre di Gesù solo per l’anagrafe, non nella realtà – perché il bambino non gli somiglia affatto e, diversamente da lui, è biondissimo. Però Giuseppe lo tiene in braccio con una tenerezza straordinaria, da padre, che non c’è nei quadri in cui è raffigurato da anziano che contempla il bambino come una meraviglia, e sembra aver paura di fargli male. Il pittore dice che quell’uomo è padre proprio con la scelta dei colori e dei gesti. Giuseppe sa che non potrà fare niente per il suo bambino, che morirà, e infatti ha in mano la coroncina della passione: questa è l’immagine di ogni genitore, che vorrebbe fare qualsiasi cosa per il figlio, ma sa che questo avrà la sua vita e non gli appartiene. Questo quadro mi colpì e ho cominciato a domandarmi perché i pittori spagnoli avevano raffigurato san Giuseppe giovane e gli italiani no. Però poi ho capito col tempo che forse quello che mi aveva più colpito non era tanto Giuseppe giovane, quanto Giuseppe che non è padre ma trasmette il sentimento della paternità. Sei come sei è nato dalle persone che conosco e dalla realtà, però questo quadro forse mi ha aiutato a raccontare la storia giusta. Da anni volevo scrivere la storia dei due padri, pensavo di voler raccontare del giovane che fa un figlio con il suo compagno, e avevo da tempo immaginato il personaggio di Christian, uno dei due padri, ed Eva, la figlia. Vedendo il quadro ho capito che la storia era l’altra: il protagonista non doveva essere il padre biologico, che è come tutti gli altri, ma l’altro, che non è padre di sangue, e ciononostante è padre. Questo era molto più interessante ed era la mia vera storia.
Libri citati: Lei così amata, Milano, Rizzoli, 2000 (Einaudi, 2012); Vita, Milano, Rizzoli, 2003 (Einaudi, 2014); Un giorno perfetto, Milano, Rizzoli, 2005; La lunga attesa dell’angelo, Milano, Rizzoli, 2008; Limbo, Torino, Einaudi, 2012. Ultimo libro: Sei come sei, Torino, Einaudi, 2013, 248 pp., € 17,50, scheda libro: www.einaudi.it
Twitter: @CardinaliRob