Dario Fo e la Rai
Tra un chinotto con la propoli e un grammelot, domenica sera Dario Fo ha dato vita alla nuova versione di Francesco Lo Santo Jullare. Come 15 anni fa, quando questo spettacolo è stato messo in scena per la prima volta, la vita del religioso è stata affrontata secondo la tematica della ribellione contro una Chiesa troppo corrotta.
I riferimenti non tanto velati alla situazione attuale in Vaticano hanno però subito un cambiamento considerevole. Se prima il premio Nobel non lasciava spiragli di luce, adesso una figura gli ha donato una nuova ragione di speranza. Si tratta proprio di Francesco, Papa Bergoglio. «Il pontefice sudamericano che si lancia senza mezze parole contro vescovi e cardinali troppo spesso sedotti dal denaro e dal potere e il santo medievale che si è messo a lottare contro i politici, le macchine del potere, la corruzione della Chiesa, dello Stato, degli uomini», Dario Fo ha così accostato il nuovo capo della Chiesa a San Francesco. L’aver scelto il nome del santo di Assisi è per il drammaturgo un simbolo importante, punto di partenza per le alcune allegorie evidenziate tra il Francesco del 1220 e il Francesco di oggi. Nonostante la presenza di commenti ironico-satirici, che contraddistinguono l’intera opera di Dario Fo, lo spettacolo di domenica ha lasciato poco spazio ad insinuazioni scabrose esaltando piuttosto le virtù sante di Francesco. Ed è su questa prospettiva che si può dedurre il motivo del ritorno in Rai di uno dei più grandi scrittori italiani. {ads1} Si sa, in Rai c’è sempre stato un controllo scrupoloso su cosa viene mandato in onda. Il socialmente e politicamente corretto è il nullaosta per la messa in onda, soprattutto lo era nel 1962. In quell’anno Dario Fo e Franca Rame conducevano Canzonissima, la popolare trasmissione di varietà, e uno sketch da loro ideato fu la causa della rottura tra gli artisti e la televisione di Stato. Una prima frattura che durò 45 anni. Il loro testo rappresentava un costruttore edile, grassoccio e con una catena d’oro sul panciotto, restio ad adottare adeguate misure di sicurezza per la sua azienda. La messa in scena suscitò numerose polemiche che portarono al “licenziamento” di Fo e la Rame. «Furono tre i delegati a censurare. Il primo che segnava con una matita rossa e che faceva il primo massacro dei testi. Poi un altro, un pochettino più largo, che segnava sempre in rosso. E alla fine c’era chi segnava in nero, forse lo stesso Bernabei o un suo delegato. Nelle interviste Bernabei appare come una persone squisita, dolce, piena di comprensione, aperta: era un “satanasso”», commentava Dario Fo qualche anno dopo l’allontanamento dalla Rai. Secondo Ettore Bernabei, direttore generale Rai dal 1961 al 1975, Dario Fo e Franca Rame potevano fare satira politica, a condizione di rispettare le componenti sia dell’ascolto televisivo che della società. Ma in quel periodo l’autore aveva istituito un “teatro non borghese”, che quindi non solo trattava argomenti che riguardavano gli operai e le classi non abbienti ma usciva dai palcoscenici tradizionali per essere rappresentato nelle piazze e nelle fabbriche. Inoltre, è sempre stata lontana da Fo l’idea di accondiscendere ai rigidi voleri dei dirigenti. {ads1} Dopo gli studi all’Accademia di belle arti di Brera, è proprio in Rai che Dario Fo trova il suo primo impiego. Era il 1950 e veniva accolto da quella che ancora veniva chiamata Radio Audizioni Italiane e che gli permise di rappresentare testi satirici per dodici anni. Dopo i 45 anni di “esilio” dalla televisione, dopo il Mistero Buffo, dopo il premio Nobel, Fo e la Rame tornano in Rai con un nuovo programma: Bello Figliolo Che Tu Se’, Raffaello. Si trattava di una lezione-spettacolo dedicata a Raffaello, in onda per tre serate su Rai Tre alle 23.40. Ispirato al libro omonimo, ricco di illustrazioni dello stesso Dario Fo, lo spettacolo affrontava l’arte, un terreno ipoteticamente avulso da commenti satirici. Anche in questo caso, però, arriva per i coniugi una censura attribuibile alla loro idea secondo cui Giotto non fosse l’autore dei dipinti della basilica superiore di Assisi. Secondo il figlio Jacopo Fo, il Vescovo della città umbra si sarebbe infastidito per questa affermazione. I sette anni successivi sono stati costellati da incontri a vuoto e rifiuti categorici da parte della Rai, restia anche al concetto di teatro in tv. Soltanto adesso, nel clima esagitato dei Mondiali di calcio, la Rai ha deciso di riabbracciare un testo di Dario Fo. Dopo sette anni, il premio Nobel torna all’Aditorium Rai di Napoli, e in prima serata, per rappresentare Francesco. Un testo che ha, dunque, una valenza culturale e sociale sia per il suo contenuto sia per la circostanza in cui è stato rappresentato.