Tian’anmen, proibito ricordare

La Data per eccellenza, così temuta che Pechino la vorrebbe mai esistita, è passata. Anziché allentare la censura e la repressione, però, il governo ha deciso di alzare il tiro. Come venticinque anni fa, continua a punire chi contesta, e a finire nelle mani della giustizia sono ancora gli studenti che quella notte di giugno scioperavano chiedendo democrazia e libertà.

Nel 2008 era stato Liu Xiaobo, l’uomo simbolo dell’opposizione al governo cinese, a varcare la soglia delle patrie galere. Né le pressioni internazionali né il Nobel per la pace del 2010 – significativamente consegnato ad una sedia vuota – sono riusciti a convincere il governo cinese a rilasciarlo, e continua a scontare la sua pena a undici anni per “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. In occasione del venticinquesimo anniversario dell'”incidente del 4 giugno”, però, dietro le sbarre delle carceri cinesi – assieme a molti dissidenti e sopravvissuti alla brutale repressione della polizia – è arrivato un altro prigioniero eccellente, protagonista come Xiaobo della rivolta studentesca del 1989. Pu Zhiqiang, avvocato dell’artista militante inviso al regime Ai Weiwei e attivista per i diritti umani, è stato arrestato il 3 maggio. Con lui, sono stati fermati gli amici, rei di essersi radunati in vista del venticinquesimo anniversario della strage di Piazza Tian’anmen. Anche se mancava ancora un mese, la città era blindata e la polizia già stava passando al setaccio i negozi, le strade e la rete per eliminare alla radice qualunque cosa potesse evocare la ricorrenza. Erano in molti a non voler dimenticare, ma il governo non aveva alcuna intenzioni di essere tenero con chi contrastava l’oblio di Stato, anche nel privato della propria abitazione. Gli arrestati, infatti, si erano riuniti in un appartamento per commemorare l’anniversario dell’editoriale con cui il Quotidiano del Popolo definì il movimento pro democrazia “una rivolta anti-partito e anti-socialismo” annunciando, di fatto, la repressione. {ads1} È bastata una foto della serata sul web per rimanere incastrati nelle maglie del Grande Firewall che tutto controlla e che non lascia passare il dissenso, e per quelli che il governo considera pericolosi facinorosi sono scattate le manette. Ricordare Tian’anmen non si può, nemmeno in casa propria. Sembrava che fosse “solo” una retata per controllare la situazione in vista del temutissimo anniversario e che, passati i giorni più delicati, tutti sarebbero stati rimessi in libertà, che fosse una delle tante misure per seminare il panico e ammonire tutti coloro che pensavano di infrangere il muro di silenzio. Conclusa “l’emergenza memoria” , però, mentre i compagni di Pu Zhiqiang sono stati rilasciati, per lui la scarcerazione non è arrivata. Alcuni giorni fa, anzi, l’Ufficio municipale di Pubblica sicurezza di Pechino ha confermato il fermo con una notifica su Weibo, il twitter cinese. L’accusa è disturbo dell’ordine pubblico e acquisizione illegale di informazioni, ma sembra che potrebbero aggiungersi altri capi d’imputazione. La polizia, infatti, sta scavando nel passato dell’avvocato alla ricerca di presunti indizi di reato, sottoponendolo anche a interrogatori di oltre dieci ore. Già adesso, però, Pu rischia fino a dieci anni di carcere. Ancora una volta, Pechino ha deciso di usare il pugno di ferro. Ancora una volta, il Paese che potrebbe diventare la prima potenza mondiale ha deciso di continuare a privare i cittadini del diritto al ricordo, alla Storia, alla verità.

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