Il punto, l’ultimo libro di David Means
Davis Means è un attento osservatore. E ha talento nel mostrare il risultato delle proprie osservazioni al lettore. Nel leggere The spot (Il punto, pubblicato negli Stati Uniti nel 2010 e tradotto quest’anno in Italia da Einaudi) scorrono nella mente una serie di sequenze cinematografiche.
Si vede il vicino di casa molesto, quello che sembra intento a disturbare le fantasticherie e il flusso di pensieri del protagonista del racconto I colpi; l’appartamento di Manhattan, gli scali ferroviari, i senzatetto, il marito fedifrago che si reca all’incontro con la prostituta; il volto della vittima dei giovani assassini di Bay City e l’uomo di casa buono e retto, con i gemelli e il colletto inamidato. Si ha davanti agli occhi un’immagine nitida della gente del Midwest e di quella di New York.
Qualcuno ha detto che scrivere è un po’ come giocare a fare Dio: si creano dei personaggi, si dà forma alle cose, e si determina lo svolgersi degli eventi. Si prende un’idea e le si dà vita sulla carta. E si scrive, per esempio, Episodi incendiari assortiti, Il pesce rosso segreto e The spot. Che cos’è il punto? È «il mistero del caso», quello che potrebbe cambiare tutto «nel giro di un istante». È il «pasticcio», «il fattore di distrazione naturale», la variabile che scompagina i piani e rende le situazioni imprevedibili.
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Tra i tredici racconti, ce n’è uno che ho letto con particolare gusto. È ambientato nel quartiere, anzi nell’isolato dove ho vissuto per oltre tre anni a New York. Leggendo Chekhov racconta di un amore clandestino tra uno studente di seminario e un’assicuratrice sposata. I due amanti si ritrovano a leggere La signora col cagnolino sdraiati su un prato del Riverside Park. Il racconto, però, mi ha fatto tornare in mente qualcos’altro, oltre agli amanti di Yalta. Ho ripensato a un episodio della vita dello stesso Chekhov, a cui una volta chiesero se incontrasse mai difficoltà nello scrivere e nel trovare fonti d’ispirazione . Lo scrittore sorrise e, indicando il tavolo, disse: «Vede quel posacenere? Io potrei scrivere un’intera storia su quel posacenere».
È questo che fanno gli scrittori, quelli bravi, quelli che, presumibilmente, si divertono anche parecchio. Quelli che giocano a fare Dio. Si dà vita ad un mulinello d’acqua, ad un piccolo vortice all’oscuro del proprio destino, che non sa se diventerà onda o finirà nella ciotola di cereali di un bambino. Si osserva bene, con cura, con calma, l’insensatezza della vita. E si cercano le parole più adatte a raccontarla.
Twitter: @claudia_pulchra