Marco Omizzolo di In Migrazione racconta i sikh dell’Agro Pontino
Lazio, Provincia di Latina, Agro Pontino. Queste location hanno fatto da cornice a una vicenda che è stata oggetto di una forte ondata mediatica risalente agli ultimi giorni. Protagonista è la comunità sikh della provincia di Latina appunto, che è la seconda più grande d’Italia. Si tratta di una storia di sfruttamento a pieno titolo, che ovviamente la comunità subisce, accompagnata da ulteriori aggravanti che adesso verranno approfondite.
E ad approfondirle è stato Marco Omizzolo, responsabile scientifico della Onlus romana In Migrazione, la quale si occupa di accoglienza e supporto a stranieri attraverso vari progetti. Omizzolo, nello specifico, ha studiato la situazione della comunità di indiani sikh nell’Agro Pontino, i quali vivono, se così si può dire, di attività bracciantili. In seguito alle sue esperienze dirette ha poi steso un dossier che denuncia situazioni di lavoro disumane subite dai sikh, elargendo comunque anche un contesto più ampio della realtà di questa comunità religiosa, vista l’esperienza di Omizzolo anche nel Punjab, da dove la comunità proviene. Ma adesso la parola all’esperto.
Parlaci della tua esperienza con la comunità sikh.
Mi occupo della comunità dai tempi della mia tesi di dottorato e ne ho seguito i diversi aspetti della vita interna a questa, poi il tutto è divenuto ambito di interesse anche per la mia attività in In Migrazione. Mi riferisco ovviamente alla comunità sikh dell’Agro Pontino che, dopo quella di Novellara, nella provincia di Reggio Emilia, è la più grande d’Italia. Questa infatti conta 30 mila persone, di cui solo 12 mila sono censite regolarmente. Il dossier denunciante i vari aspetti di sfruttamento subiti da questi sikh, e di cui a breve parlerò più dettagliatamente, deriva da 18 mesi di indagine sul campo che ho eseguito.
Cosa intendi per indagine sul campo?
Ho lavorato, per un certo periodo, come infiltrato nei campi, facendo proprio il bracciante. Poi ho frequentato i sikh anche al di fuori del lavoro. Sono stato ospitato in India dalle famiglie che sono rimaste lì e, piano piano, con pazienza e tatto, ho acquisito fiducia da parte loro, attraverso la quale sono riuscito a tirar fuori i loro pensieri e le loro confidenze sulle difficoltà che vivono in Italia. Unendo dunque la mia esperienza sul campo e le loro deposizioni è uscito fuori il dossier.
Cosa è emerso dunque da tutto questo?
C’è da specificare innanzitutto che la comunità sikh è una comunità di impronta fortemente religiosa, la cui dottrina è il risultato di un incrocio tra induismo e islam. Il sikhismo pratica l’ortoprassi, cioè il ritenere che, attraverso il lavoro, si può far crescere la propria comunità e ambire, così, al paradiso. Da questa dedizione alla fatica ne deriva un’impossibilità a ribellarsi alle ingiustizie e anche una difficoltà ad aprirsi e a riconoscere, per esempio, che ci si trova in difficoltà. La religione infatti impone ai sikh rigore e stoicismo nell’affrontare i problemi: lamentarsi e scaricare le colpe sugli altri non è assolutamente ammesso. Da questa difficoltà a reagire ne è derivata però una facilità, da parte dei datori di lavoro italiani, nell’approfittarsi della docilità dei sikh. E si parla di un forte approfittarsi. Quando mi sono infiltrato nell’attività dei campi, lavorando proprio come bracciante, i lavoratori sikh erano miei “conniventi”. I proprietari delle aziende, che si fanno chiamare padroni dai loro sottoposti, invece non sapevano della mia esistenza: questi non vanno mai sul campo, quindi non conoscono le facce dei lavoratori, si affidano bensì a un intermediario in genere indiano, che distribuisce gli ordini dall’alto. Per quanto riguarda il sistema di lavoro, parliamo di un vero e proprio caporalato, ovvero di sfruttamento di manodopera: i lavoratori sono sul campo sotto qualsiasi condizione meteorologica, 14 ore al giorno per uno stipendio di 3.50 euro l’ora invece di 9.00 (la Flai Cgil, ovvero il sindacato dei lavoratori della terra, che conosce molto bene le dinamiche di sfruttamento e le varie regole che dovrebbero sostenere i lavoratori, ha contribuito alla stesura del dossier, fornendo dunque informazioni precise su come il tutto dovrebbe essere, ndr). Svolgendo dunque un lavoro già di per sè molto faticoso, come quello del bracciante, e in questo modo senza alcuna protezione fisica, per esempio facendo spargere ai lavoratori prodotti chimici sulle piantagioni con la sola copertura di una sciarpa di lana, o contrattuale, alcuni hanno dei contratti ma la maggior parte no e nel registro delle aziende vengono scritte solo 4 delle 14 ore effettivamente svolte, alcuni dei sikh hanno provato a reagire alla fatica fisica e mentale in maniera non del tutto consona.
Consumando droghe per esempio?
Si esatto. Principalmente metanfetamina e le varianti dell’oppio. Non ho assistito personalmente a questo fenomeno ma mi sono state fatte delle confidenze dai lavoratori stessi che però, inizialmente, prendevo un pò con le pinze. I sikh parlano un italiano molto stentato e quindi pensavo che, utilizzando il termine droga, si riferissero magari a sigarette o a quant’altro. Poi però queste confessioni aumentavano e, ragionando sul fatto che da soli, i sikh, per ragioni economiche non potevano permettersi la droga, ho iniziato a pensare che, dietro a tutto questo, esistesse un sistema più complesso. Il blitz delle forze dell’ordine in alcuni campi dell’Agro Pontino, che ha avuto luogo a gennaio di quest’anno e in seguito al quale sono state sequestrate ingenti quantità di droga, ha poi confermato i miei dubbi. Da questo blitz è emerso infatti che la produzione e il profitto delle sostanze stupefacenti sequestrate derivano dall’Italia, ma la catena di spaccio è formata da indiani, due dei quali sono stati arrestati in questa occasione. L’intento delle forze dell’ordine però è quello di scovare la radice della catena.
Quali sono stati gli effetti del dossier e dell’ondata mediatica che ha puntato i riflettori su questa vicenda?
Il giorno stesso dell’uscita del dossier sono state fatte quattro interrogazioni parlamentari e questo è sicuramente un traguardo importantissimo. Di strada però ce ne è da fare ancora molta e, come è emerso dal mio racconto, la droga non è assolutamente l’unico problema; è infatti la conseguenza di una serie di dinamiche da combattere.
In seguito al blitz magari la polizia scoprirà le condizioni disumane in cui queste persone lavorano…
Noi ce lo auguriamo…è difficile ma non impossibile. In tutta la provincia di Latina ci sono 14 ispettori del lavoro, che io peraltro non ho mai visto in giro per i campi. Se comunque si fa un mero controllo amministrativo nelle aziende può emergere solo quello che c’è scritto sui registri, ovvero che i braccianti lavorano quattro ore e non quattordici come effettivamente è. Bisognerebbe operare un’infiltrazione vera e propria per scoprire quello che ho scoperto io. E questo è difficile soprattutto perché nella provincia di Latina ci sono otto mila e passa aziende agricole sparse per tutto il vasto territorio ma, appunto, nulla è impossibile, si tratta solo di volontà… politica principalmente.
La politica è sempre presente… In tutto questo che ruolo ha?
Il fatto è che il mondo patronale agricolo pesa moltissimo nella provincia di Latina visto che da qui dipendono molti destini politici. É un mondo potente, ha soldi, ha legami diretti con la politica alla quale garantisce voti. Non conviene dunque al sistema contrastare tutto questo.
Cosa chiedete dunque, ora che il problema è uscito fuori ed è stato trattato da testate giornalistiche di grande peso politico, per contrastare il fenomeno dello sfruttamento?
Noi stiamo facendo del nostro: abbiamo già organizzato il primo campo di volontariato nazionale sui sikh la scorsa estate a San Felice Circeo, dove sono stati fatti studi empirici sui campi di lavoro per conoscere questa realtà. Richiediamo però un impegno più forte da parte delle istituzioni. Le Onlus e i sindacati possono fare fino a un certo punto, ma abbiamo bisogno di un’organizzazione più strutturata, incentivata soprattutto dal Ministero dell’Interno. É questo infatti che deve investire in progetti finalizzati alla realizzazione, per esempio, di corsi di italiano in maniera sistematica, che poi sono quelli fondamentali per far sì che gli stranieri ottengano il rinnovo del permesso di soggiorno e che, allo stesso tempo, diano a questi la possibilità di difendersi, facendosi capire dalle istituzioni e divenendo in grado di far valere i propri diritti.
Una comunità così vasta e già prigioniera, se vogliamo, di una religione molto severa e poco attenta all’individuo e alle sue esigenze, perché troppo focalizzata su quelle della comunità e del bene astratto, non ha certo bisogno di essere anche prigioniera di un sistema che, invece, dovrebbe garantire il bene comune. Ci si augura che questa vittoria di In Migrazione sia la prima di una lunga serie.