La mostra di Andy Warhol a Roma

Dopo aver deliziato più di duecentomila visitatori a Milano nelle bellissime sale di Palazzo reale, la mostra dell’autore che più di ogni altro è stato l’icona della Pop Art, approda nel cuore della capitale al Museo Fondazione Roma-Palazzo Cipolla.

Sono ben centocinquanta le opere in esposizione, tutte provenienti dalla The Brant Foundation di cui è fondatore e presidente Peter Brant, grande amico dell’autore e autorevole collezionista. I quadri presenti sono una sintesi perfetta del lunghissimo percorso artistico di Andy Warhol; offrono al pubblico la straordinaria possibilità di ammirare i suoi gruppi di opere più importanti scelti con sagacia da un curatore d’eccezione che ha condiviso con lui negli ’60 e ’70 i fermenti artistici e culturali della Grande Mela. Grazie alla generosità di Peter Brant possiamo quindi ripercorrere l’eterogenea produzione di questo eccentrico e poliedrico artista. Si parte dagli anni cinquanta quando Warhol dopo gli esordi nella commercial art lavora come illustratore per le riviste più importanti (Harper’s Bazar, New Yorker) e come illustratore pubblicitario. Appena entrati sulla sinistra si rimane abbagliati dallo scintillio delle raffinate scarpette a foglia d’oro che incorniciano il colorato quadro che ritrae una delle più famose celebrità americane: Liz Taylor.

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Proseguendo ci si trova di fronte le prime Campbell’s sup e Coke che rappresentano insieme al 192 One Dollar Bills gli oggetti prediletti dall’artista; le fonti d’ispirazione che favoriscono il suo passaggio dall’illustrazione alla pittura in seguito alla domanda di una cara amica che gli chiedeva di disegnare ciò che gli piaceva di più. In realtà come afferma lo stesso Warhol a legarlo a questi oggetti che riempivano la sua quotidianità non era solo un rapporto di piacere ma anche di conoscenza: «Sono convinto di rappresentare gli Stati Uniti con la mia arte, ma non sono un critico sociale. Dipingo questi oggetti perché sono le cose che meglio conosco». Ogni quadro di Andy Warhol riflette la sua America; i ritratti di Kennedy e Marilyn, le sedie elettriche, il denaro, il consumismo con lui diventano arte. Non mancano le trasfigurazioni di un’altra grande ossessione: la morte con la serie Skulls e Disater; quest’ultimi in particolare esprimono icasticamente la morbosità curiosa dei guidatori quando passano vicino ad incidenti sulle strade.

Il genio visionario di questo artista figlio di due immigrati rumeni si può anche ritrovare in alcune tele che raffigurano il presidente cinese Mao, il quale se per noi «europei – come scrive il critico Francesco Bonami – negli anni Settanta, aveva ancora una pesante connotazione politica, per Warhol egli non era altro che una delle tante celebrità di un mondo dove la politica, come la intendiamo noi, ha poco a che fare». È certo una fortuna poter apprezzare anche il colorismo esuberante dei primi Flowers (1964) in passato esposti nella famosa galleria di Leo Castelli come «fossero sgargianti carte da parati». La mostra si conclude con l’ultimo lavoro del genio americano che dopo aver attraversato la superficie della modernità ed essersi fatto interprete della società di massa disegna l‘Ultima Cena di Leonardo come se anche quest’ultima fosse ascrivibile nel novero delle figure familiari e per questo anche celebri.

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