L’ILLEGITTIMITA’ DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE

La Corte di Cassazione, con la sentenza del 18 marzo 2014, n. 6222, ha stabilito che il licenziamento disciplinare è da ritenersi illegittimo ogni qualvolta il CCNL applicabile per l’infrazione contestata preveda, in luogo della sanzione espulsiva, una sanzione di carattere conservativo, anche in ossequio alle nuove norme contenute all’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, nel testo novellato dalla c.d. Riforma Fornero.

 

Difatti la predetta norma prevede che, nell’ipotesi sussista la carenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa oppure la punibilità della condotte con una sanzione conservativa ai sensi delle norme del CCNL applicabile, il giudice dovrà disporre l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria e dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti.
La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte riguardava un licenziamento disciplinare intimato, dopo una sospensione cautelare, nei confronti di un lavoratore per l’uso improprio di strumenti di lavoro.

La Suprema Corte ha confermato la pronuncia del Giudice di secondo grado, il quale aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, rilevando che il fatto contestato corrispondeva ad una fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo applicabile, per il quale è stabilita solo una sanzione conservativa per l’infrazione consistente nell’utilizzazione “in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali”.
Il vizio di motivazione della sentenza impugnata, ad avviso del ricorrente, verteva sulla coincidenza integrale tra la fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo ed il comportamento in concreto contestato al lavoratore e posto a base del licenziamento senza preavviso.

La Società datrice di lavoro, nella lettera di contestazione degli addebiti rilevava, a titolo esemplificativo, tra gli illeciti imputati al lavoratore, l’esistenza nel computer affidatogli di programmi coperti da copyright non forniti dall’azienda e non necessari per lo svolgimento delle mansioni assegnategli.
Ebbene, proprio da tale contestazione la Suprema Corte trae il fondamento della propria decisione.
Secondo la Corte infatti l’insufficienza delle allegazioni della società ricorrente dimostra che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, l’addebito mosso al dipendente riguardasse infrazioni disciplinari autonome e differenti rispetto alla fattispecie contemplata dal contratto collettivo vigente in azienda.
I Giudici di legittimità dunque, pur rigettando il ricorso, poiché in presenza di una decisione di merito ineccepibile nella ricostruzione dei fatti di causa, rilevavano che una più rigorosa costruzione del percorso disciplinare, in sede di contestazione degli addebiti, avrebbe condotto ad esiti opposti.

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