La Medea furiosa di Maria Paiato all’Eliseo

Ai confini del mondo, in un peristilio trasfigurato da magazzino post-industriale, vanno in scena le passioni della Medea di Seneca, al Teatro Eliseo fino al 17 aprile. L’adattamento e la traduzione di Francesca Manieri, che incamera la tragedia sulla via dell’interpretazione attualizzante, ne rievocano soprattutto gli umori.

La protagonista ha il volto di Maria Paiato, alla quale viene affidato il compito non semplice di farsi epicentro della rappresentazione e del terremoto che investe Corinto. L’ira la cavalca e la domina, anche quando tra il delirio e lo stoicismo, si insinua la paura di non saper porre mano all’infanticidio. Una donna sola e straniera, ma anche “vecchia, oscena”, che cede il passo alla nuova moglie, l’alter-ego giovane e regale. Una Paiato bravissima, eccentrica ed elegante, anche nell’isteria, che tuttavia non può reggere da sola il peso della rappresentazione come Medea non può sostenere lo sdegno della sua condizione.

Sotto i riflettori di un verde radioattivo, intorno al lei, una principessa in lutto con i gioielli sfolgoranti dell’oriente, si muovono i passi dei nemici e degli estranei. Quelli di Creonte (Orlando Cinque), sceriffo e giudice, che fa del cappello il suo scettro, quelli della nutrice/messaggero dark (Giulia Galiani), quelli di Giasone (Max Malatesta), che nel tentativo di riportare Medea sul piano della razionalità e del logos, finisce per cucirsi addosso la veste del codardo. “Sono stanco di star male, e lo sei anche tu” dice a una Medea sorda, che implora senza essere ascoltata. Il dialogo-non dialogo tra i due è il punto di maggior equilibrio e, al tempo stesso, toccante emotività del dramma, prima di perdersi in una serie inorganica di scelte registiche, musiche ingombranti, segni della croce e rosari fucsia.{ads1}

Al corifeo (Diego Sepe), naufrago del coro, viene affidato il compito di farsi portavoce della chiave interpretativa del testo, chiudendo la rappresentazione orfana dell’ultimo faccia a faccia tra Giasone e Medea, prescritto da Seneca e, prima di lui, da Euripide. Tra visioni profetiche e passaggi lirici, si insinuano i richiami a Guantanamo, ai volti degli uomini, alle file agli sportelli, una storia nella storia. Il presente e il passato mitologico si scontrano nei lunghi monologhi, raddoppiati rispetto al testo latino, che seguono andamenti sibillini, angoscianti: si fa strada un noi, un qui ed ora, un ponte fra passato e presente, fra il dramma antico e il suo pubblico attuale, che invita alla riflessione, alla partecipazione. Questa Medea, mostro, furia, menade, è nient’altri che il seme di un male che si riverbera nella nostra società, dilagante, orrido, ma soprattutto informe, del quale dovremmo sentirci partecipi se non colpevoli.

E mentre il corifeo incalza lo spettatore, lo trascina sul palco reiterando un “noi” inaspettato, le cause e le colpe si confondono senza un accenno di logica. Quale violenza più grande se non quella di gettare sul piatto un’inquietudine condivisa, senza per questo affidarle un volto, una ragione? Noi di Guantanamo, noi in fila agli sportelli, noi che solchiamo il potente mare, ma noi chi? Noi quando? Di una tragedia che presumibilmente non fu mai portata sulla scena si fa il manifesto di mali senza nome del nostro tempo. Ma l’operazione di Pierpaolo Sepe corre su un terreno scivoloso, poiché se prende corpo l’idea che basti interrogare lo scrittore antico perché questi risponda con le nostre parole a domande che non sappiamo porre, siamo dunque noi i veri colpevoli, violenti, immorali, noi che abbiamo dentro il caos, la solitudine, l’angoscia, il male ma non le parole per saperli esprimere.

Foto di Pino Le Pera

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