A Roma la mostra di Frida Kahlo

Avrebbe desiderato conseguire la laurea in medicina e votarsi a una carriera scientifica ignorando, però, nella sua allegra aspirazione con quanta violenza il destino a volte può irrompere nelle nostre vite, strappando il velo che nasconde le nostre più profonde inclinazioni.

Aveva da poco compiuto diciassette anni quando l’autobus che l’avrebbe riportata a casa fu coinvolto in un terribile incidente con un tram, rimanendo schiacciato contro un muro. Sopravvisse miracolosamente all’impatto dopo aver subito la rottura in tre punti della colonna vertebrale con un corrimano piantato nel fianco e uscitole dalla vagina. Fu l’inizio di un calvario che inanellò nel corso della sua breve esistenza più di trenta interventi chirurgici; trascorse immobile e dolorante alcuni anni su un letto dove improvvisa fiorì la sua passione per la pittura. Arrivò addirittura al punto di considerare – come scrive Martha Zamora – «la sua infermità come un luogo nel quale coltivare lo spirito, il luogo della sua privata solitudine a cui nessuno può accedere e nel quale dar vita a un linguaggio in grado di registrare» la sua sofferenza. La sua arte diventa la più elevata trasfigurazione della sua tormentata vita interiore. L’incontro con il muralista Diego Rivera con il quale – seppur con diverse interruzioni segnate da relazioni extraconiugali per entrambi – sarà legata fino alla fine dei suoi giorni, a suo dire, rappresenta il secondo «grave incidente» della sua vita. Percorrere la bellissima mostra di Frida Kahlo in corso nelle spaziose sale delle Scuderie del Quirinale sarà un modo per uscire da un abusato stereotipo che identifica, forse troppo banalmente, la sua arte con i drammi della sua esistenza.{ads1}

 Nasce a Coyoacàn, un minuscolo villaggio dell’ancora piccola Città del Messico; la sua infanzia assorbe gli impeti della rivoluzione messicana, la sua forza modernizzante e il mobile e affascinante contesto culturale che ne consegue. André Breton, Antonin Artaud, Tina Medotti sono alcuni nomi dei tanti autori attratti da un mondo, il Messico, che molti giovani si impegnavano a ricostruire. La pittura murale, sostenuta dallo stesso governo, divenne lo strumento privilegiato per educare le menti dei cittadini; lo spazio ideale dove poter esprimere artisticamente temi come le feste e il lavoro. Diego Rivera, con ardimento, se ne servì per denunciare lo sfruttamento ingiusto dei minatori e le condizioni semi-servili dei braccianti delle grandi “haciendas”. Per Frida e per la sua anima profonda non esistono solo gli eventi di una storia a lei contemporanea; c’è la cultura messicana arcaica ed eterogenea permeata da un forte dualismo, da una ammaliante idea di equilibrio, inteso come «risultato dell’interagire di uomo e donna, vita e morte, sole e luna». La presenza dei due astri nei quadri della Kahlo è ricorrente: come una reiterata rappresentazione cosmica della tribolata relazione d’amore con Diego: il dipinto L’abbraccio dell’amore e dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xólotl, realizzato nel 1949 è una sintesi suprema del patrimonio mitologico del suo Paese, una sublime trasposizione dell’«anelito dell’uomo all’unione» e della sua tragica irrealizzabilità.

 Il viaggio a Detroit poco dopo il matrimonio, nel quale accompagnò il marito Diego Rivera, allargò i suoi orizzonti; il confronto con il nuovo mondo fu il pretesto per approfondire quello in cui si era cresciuta. Negli Stati Uniti cominciò a dipingere autoritratti di dimensioni ridotte che sono il risultato di un’estenuante attività di scavo nella sua interiorità. Autoritrarsi, lavoro che occuperà gran parte della sua produzione non rappresenta in Frida un atto narcisistico; il suo essere più profondo non annega nel riflesso di un’immagine ma è alla ricerca di una fedele espressione in cui potersi riconoscere. Il quadro Autoritratto con collana di spine (1940) è uno dei più alti compimenti di questa logorante tensione; i suoi occhi somigliano a due piccoli Tao. Accolgono nelle loro minuscole rotondità, equilibrandolo, il conflitto perenne e inestinguibile tra il dolore e l’amore, il male subito e la bellezza del vivere; la fierezza che investe lo sguardo dello spettatore, appare come lo sforzo di una donna che intende superare le ingiurie che il suo corpo e il suo spirito hanno vissuto fino a quel momento. Due folte sopracciglia come ali di gabbiano e la linea sottile dei sui baffi che ombreggia sul trucco curato delle labbra sono l’inconfondibile sigillo di una femminilità potente e originale. 

A rendere famosi il suo corpo, il suo viso il suo abbigliamento eccentrico non sono stati solo i suoi autoritratti ma anche le fotagrafia; la bellissima sezione dedicata agli scatti di Murray e Matiz ci restituiscono la bellezza di una donna catturata nella spontaneità quotidiana, nell’intimità preziosa di un bacio fugace o nel fulgore di un corpo disteso a cielo aperto sull’erba. Molti furono i fotografi che riconobbero nella figura e nell’atteggiamento di Frida «la forza ieratica dell’icona»; molti vollero fissare la sua esuberanza, la sua passionalità continuamente in lotta con tutte quelle convenzioni pronte a schiacciarne gli slanci. Stupende sono le immagini scattate da Leo Matiz nell’ormai rinomata “Casa Blu” di Coyoacán che raccontano gli incontri con gli artisti, amene gite in campagna le escursioni a Xochimilco dove troviamo la Kahlo avvolta totalmente in un clima di «soave distensione e leggerezza».
Nella mostra c’è spazio anche per il suo particolare rapporto con i surrealismo che più che un adesione al suo Manifesto rivela un «sostegno salvifico nelle forme espressive» di quest’ultimo, vero e proprio canale di fuga dove poter manifestare il suo pesante vuoto esistenziale. Nel lontano 1944 la stessa Frida parlerà di questo movimento culturale come «la magica sorpresa di trovare un leone in un armadio dove si è certi di trovare delle camicie». Il suo invaghimento venne però ridimensionato qualche anno più tardi quando inequivocabilmente affermò di non essersi mai sentita una surrealista perché quello che aveva dipinto durante la sua non erano i suoi sogni, bensì la sua realtà.

L’ultimo tratto di questo viaggio è il dispiegamento artistico di una commovente, quanto inevitabile, metamorfosi. La stanza che conclude questa coinvolgente monografica sulla pittrice messicana espone infatti i suoi ultimi lavori che sono per lo più delle nature morte costellate da simboli della sessualità e del desiderio come emerge con chiarezza in Frutti della terra o in La sposa che si spaventa vedendo la vita aperta. Frida Kahlo si dedicò negli ultimi anni della sua vita a questo tipo di composizioni perché come lei stessa sosteneva non solo erano più facili da vendere, ma anche meno impegnativi da realizzare considerati i peggioramenti costanti del suo stato di salute. Dietro questa scelta non vi sono solamente ragioni pratiche; il deterioramento del suo corpo fece preferire alla sua delicata sensibilità altri soggetti che divennero una sorta di autoritratti impliciti. In Autobiografia messicana leggiamo una frase che sembra descrivere con una precisione sconvolgente il rapporto tra la sua arte e la sua esistenza: «Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere». Come se i suoi quadri fossero il gesto perfetto per resistere agli urti traumatici del fato e la felicità, la grazia di sollevarsi al di sopra della necessità.

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