Tortura, un reato troppo comune

<<Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente>>: nei giorni scorsi la solita gattopardesca manovra di palazzo, inadeguata alla credibilità di uno Stato civile, ma sempre coerente con i compromessi delle larghe intese e dei giochi di lobby, ha spianato la strada all’inserimento del reato di tortura nel nostro ordinamento.

Con le dovute modifiche al testo originario però, che rendono il decreto, in accordo con le pressioni esercitate da anni dai vertici delle forze dell’ordine e dai sindacati di polizia, inoffensivo. Già nei mesi passati Amnesty International e l’associazione Antigone Italia avevano espresso disappunto per la definizione di tortura contenuta nel testo in discussione alla Commissione Giustizia del Senato: secondo l’ultimo testo unificato del disegno di legge sull’introduzione del delitto di tortura nel codice penale, presentato a settembre dal relatore del Pdl D’Ascola, per esservi tortura vi sarebbe bisogno che vengano commessi <<più atti di violenza o di minaccia>>. Anche l’ Unione Camere Penali si esprime oggi negativamente sulla proposta di legge, tanto distante dalle direttive internazionali Onu quanto inefficace nel quadro giuridico generale della nostra nazione, dove rischierebbe di creare confusione rispetto ad altri reati già esistenti.
Il dato contestato è proprio che la tortura venga descritta come un reato comune, generico e non specifico, dove il fatto che essa venga commessa da un agente, rappresentante dello Stato, costituisce un semplice aggravante. In questo modo la legge, al di là del palliativo mediatico, perde tutto il suo effetto deterrente e il suo significato formativo, persuasivo e correttivo.
L’inesistenza di una posizione legislativa incisiva sembra di fatto essere stata sostituita da uno specchietto per le allodole. Ma l’evidenza salta agli occhi: non è così semplice colmare una lacuna normativa che dura da oltre 25 anni, durante i quali si sono verificati eventi vergognosi come quelli di Bolzaneto, cui sono seguiti procedimenti giudiziari lenti e controversi, procrastinazioni dettate da una volontà politica tanto ferma quando si tratta di oscurare, quanto fiacca quando si tratta di dare un doveroso segnale di rivincita etica. Un vuoto che ha risucchiato tante vittime: le identità prima negate e poi infangate dei troppi Federico Aldovrandi dimenticati, la dignità dei funzionari che svolgono invece il proprio lavoro onestamente. Un vuoto riempito finora solo di odio sociale, che dinamiche ambigue di violenza e ritorsione, favoreggiate dallo Stato, continuano ad alimentare. Il lavoro del parlamento dovrebbe essere facilitato dai testi internazionali: la definizione fornita dall’ articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 <<non richiede sforzi di fantasia da parte del legislatore>>, incalza Amnesty.

Il termine indica <<qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito>>.
L’ abuso di potere è un illecito per definizione, non un’ aggravante. Proteggerlo è un crimine contro l’ennesima occasione di cambiamento, trasformata invece in merce di scambio. Molti delusi in questi giorni si augurano che la Camera apporti le dovute correzioni: date le premesse c’è solo da sperare che non accada di peggio.

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