I russi non giocano a poker
L’egemonia globale USA è finita, siamo davanti a un mondo con un nuovo assetto geopolitico multipolare, affinché la trasformazione giungese a compimento ci sono voluti poco più di vent’anni. I think tank straussiani , col “Project for a New American Century” (PNAC), hanno avuto la loro ultima chance sotto l’amministrazione Bush.
Oggi quel tipo di piano egemonico sembra oggettivamente irrealizzabile, più ancora di quanto non sia di fatto accantonato nelle mire della Casa Bianca. La crisi ucraina rappresenta l’apice di un processo ormai in corso da diversi anni e che abbraccia vaste aree strategiche del pianeta, a cominciare dal medioriente. Nel settembre 2013 nel pieno della questione siriana, la macchina da guerra Statunitense aveva scaldato i motori secondo i passaggi standard consolidati in tante altre crisi di inizio secolo culminate poi con invasioni e bombardamenti: crescita esponenziale dell’attenzione mediatica, denuncia pubblica e dichiarazioni belligeranti della Segreteria di Stato (Kerry, come Rice e Powel prima di lui), consultazioni con gli alleati, ultimatum e movimento di truppe e portaerei. Bastò una frase di Putin: ‘Saremo al fianco della Siria di Assad’, per far tacere i cannoni a stelle strisce. Non meno intransigenti erano state le posizioni di Putin nella guerra georgiana del 2012 prima e nella crisi iraniana poi, dove il governo israeliano fu il primo a mal digerire la retromarcia su un possibile di un attacco ai siti di arricchimento dell’uranio. Non è una nuova Guerra Fredda, ma una reale multipolarità, nella quale l’area del Pacifico con le crescenti tensioni tra Cina e Giappone (isole Diaoyu-Senkaku) e conseguente riarmo bilaterale, è ormai una questione regionale col governo di Washington relegato ai margini della crisi. A questo possiamo aggiungere che il “cortile di casa” latino-americano è ormai un ricordo residuale limitato al controllo di qualche statarello centroamericano, mentre si sono affermati nei grandi paesi del sud il chavismo, realtà non allineate come quelle di Morales e Mujica e i nuovi progetti socialdemocratici che da Lula in poi hanno investito il continente senza che gli USA potessero far altro che storcere il naso (e supportare golpe falliti come nel caso Venezuela). {ads1}
Gli Stati Uniti sono ancora di gran lunga la maggiore potenza militare del mondo, ma questo potere non è più strapotere e l’esportazione militare della democrazia (o meglio del business) è una via non più percorribile. Le ultime mosse sul piano internazionale di una qualche efficacia fanno piuttosto riferimento alla strategia di Gene Sharp, quella mirata cioè al finanziamento e alla creazione di movimenti di protesta in grado di mettere in difficoltà i governi sgraditi, il cosiddetto modello delle ‘rivoluzioni colorate’. L’Ucraina non fa probabilmente eccezione, soprattutto quando la narrazione virginale sui patrioti rivoltosi insorti contro il dittatore assassino Yanukovich, si sgretola ascoltando la telefonata tra il ministro degli esteri estone Urman Paet e diplomatica UE Catherine Ashton (‘C’è l’impressione sempre più forte che dietro i cecchini non ci sia Yanukovych ma qualcuno della nuova coalizione.’). Stavolta però è di nuovo intervenuto Putin con una strategia priva di una reale ricerca del consenso (scontata in patria e nella Crimea russofona, quanto ininfluente fuori), fatta di azioni militari immediate e per ora incruente, messaggi mediatici furbi (i soldati russi coi bambini russofoni in braccio) e mosse politiche astute come quella del referendum di Crimea di domenica prossima. In breve: strategia, logistica e pianificazione.
Posizione dopo posizione, Putin schiera i suoi pezzi mentre i gendarmi di ieri lo osservano con le mani legate. Oggi il sindaco di Sebastopoli vieta la lingua ucraina, colonne di blindati russi viaggiano verso il nord della penisola e il referendum indipendentista andrà come è scontato che vada.
Mentre Angela Merkel, indebitamente a capo di una minuscola Europa, taccia Putin di essere fuori dalla realtà, con la propria politica neoimperiale lo Zar plasma quella stessa realtà fattuale, senza che bluff e minacce ‘occidentali’ possano in alcun modo interferire. La situazione è sintetizzata perfettamente da un anonimo tweet girato in rete qualche giorno fa:
‘I russi non giocano a poker. Giocano a scacchi.’