Renzi contro tutti

Un anno fa, stavamo aspettando trepidanti i risultati delle elezioni politiche. Ieri, il Parlamento uscito da quelle consultazioni ha votato la fiducia al Renzi I, il terzo governo di larghe intese, che nessuno ha mai votato. Sul piano costituzionale, nulla da eccepire. Nei palazzi, come nell’opinione pubblica, però, serpeggia il malcontento.

 

Lunedì, primo round al Senato. Un’ora e dieci per convincere un Palazzo Madama affatto bendisposto. Un discorso, quello di Renzi, che sembra rivolto soprattutto agli elettori dietro le telecamere. Ha parlato a braccio, ogni suo gesto sembrava voler mostrare la sua alterità rispetto al palazzo, fra mani in tasca e citazioni improbabili da Gigliola Cinquetti. «Sogno, coraggio, fare». Molte belle parole, propositi più o meno condivisibili ma difficilmente realizzabili da un governo di larghe intese in cui siede ancora, per dire, Alfano, e che ha una maggioranza risicata. La contraddizione appare più che mai evidente quando il neopresidente si premura di rassicurare il Nuovo Centrodestra su uno dei punti più controversi, quello delle unioni civili: «Sui diritti si fa lo sforzo di ascoltarsi, di trovare un compromesso anche quando non soddisfa del tutto». Ma quale compromesso può esserci con il partito di Giovanardi? Renzi, poi, in quei settanta minuti, si scorda il benché minimo riferimento alle coperture economiche della sua piccola grande rivoluzione. Non è un dettaglio da poco, visti gli obiettivi affatto modesti che richiederebbero centinaia di milioni di euro. Ma qualcuno ci aveva già provato a promettere riforme radicali senza spiegare da dove sarebbero arrivati i soldi (ricordate, poco più di un anno fa, l’abolizione dell’IMU?), e aveva funzionato. Via libera al sogno, quindi. Il Pd vota compatto, ma i malumori restano. Non solo per lo spodestamento di Letta e le contraddizioni di questi mesi, ma anche per le scelte dei ministri, dalla (pare) ultraraccomandata Madia all’esclusione della Bonino. Il primo applauso arriva solo dopo nove minuti e l’accoglienza del «piccolo comizio da modesto segretario di partito» – parola del bersaniano Corsini – è fredda. Anche i civatiani votano sì, a denti stretti. Chi, invece, di compromessi non vuole sentirne parlare, sono i 5 stelle. Le polemiche e le contestazioni arrivano appena Renzi inizia a parlare. Lui, però, non sembra farsi intimorire e contrattacca. Lo scontro prosegue a più riprese per tutto il giorno. Il MoVimento fino all’ultimo prova a bloccare la votazione, invano. All’una di notte, Palazzo Madama approva.

Il passaggio alla Camera preoccupava meno il neo Presidente. Anzi, sembrava quasi un di più, un fastidio burocratico. «Ok il Senato, adesso la Camera. Poi si inizia a lavorare sul serio. Domani scuole, lavoratori, imprenditori, sindaci a Treviso», ha cinguettato appena sveglio. A Montecitorio, tutto come previsto, grazie ai deputati garantiti dall’incostituzionale Porcellum: passa la fiducia con un solo voto in meno di Letta. Civati lo avverte «Stai sbagliando. Anche io ho sognato la nostra generazione al governo ma non dobbiamo andarci con una manovra che nemmeno Mario Rumor». Alla fine, però, si tura il naso. Anche Fassina, che assicura che la sua fiducia non sarà una delega in bianco, alla fine appoggia il Renzi I. Per interesse o per formazione, nessuno vuole sfasciare il fronte. Liberarsi della fama di letticida (ah, quel #enricostaisereno), di traditore antidemocratico, però, non sarà facile per il leader del Pd. L’aria che tira dentro il partito era tutta nella faccia di Letta quando è entrato a Montecitorio. Molti deputati sembravano più interessati ad appoggiare il povero Enrico accoltellato alle spalle che il nuovo governo. In molti sembrano dimenticare, però, che Letta era «Ugualmente giunto a Palazzo Chigi senza alcun mandato popolare, ugualmente ingannevole verso i propri elettori in quanto vicesegretario del partito che in campagna elettorale prometteva “mai larghe intese”, ugualmente artefice di una manovra di Palazzo in cui era riuscito a far convergere tutti i maggiori poteri economici e mediatici di questo Paese», come ricorda Giglioli sull’Espresso. A rendere le fratture interne ancor più palesi, però, arriva Bersani, che torna a Montecitorio fra la standing ovation dei banchi parlamentari ma precisa subito «sono qui per abbracciare Enrico. Il mio dovere è votare la fiducia». Gelo.

All’ingresso di Bersani non si alza solo il MoVimento 5 stelle. La loro protesta nei confronti nel nuovo governo è continuata anche a Montecitorio, tra schiocchi di dita («basta ipnosi») che danno a Renzi l’assist per fare il gigione dandogli famiglia Addams e l’improbabile «figli di trojka» rivolto a Renzi e Padoan da parte di un brillante Sibila. Renzi, come al solito, risponde attaccando, stavolta con una lezione sulla democrazia interna che «rende persone migliori». A favor di telecamere, però, cerca anche un contatto con il grillino Di Maio, sapendo che il contenuto del suo messaggio resterà segreto per poco. Come volevasi dimostrare, il carteggio tra i due finisce sul web a tempo record. «Dialetticamente ci divertiremo, politicamente no», aveva promesso Renzi ai 5 stelle. Il neopresidente sembra divertire anche Micaela Biancofiore, la fedelissima di Berlusconi che lo ha definito «gagliardo». Prima del voto, però, Forza Italia avverte: non diamo la fiducia a scatola chiusa e vuota, riferendosi alla mancanza di un programma concreto. Alla fine, i “sì” sono 378, mentre 220 votano contro e un deputato si astiene. Renzi ce l’ha fatta, ora ci deve far sognare.

 

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